Combattere la cultura dello stupro
In cui approfondiamo la contrapposizione tra cameratismo e fratellanza e vediamo come il comune discorso tra maschi (e non solo) tenda a perpetuare la cultura in oggetto.
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Ciao, io sono sempre Pietro e questo è sempre Patrilineare: sono abbastanza pessimo nelle introduzioni ma fidatevi che col tempo potrei migliorare. Grazie a tutti quelli che mi hanno mandato dei feedback: per rispondere un po’ in generale, sì, queste mail sono sempre dei pipponi un po’ teorici perché derivano da un progetto “scritto di getto” durante il lockdown, ma in futuro Patrilineare potrebbe evolversi in un formato più “agile”.1
Il camerata vs. il fratello
Ce lo siamo già detto in una delle prime uscite: le femmine parlano molto tra di loro e soprattutto parlano di emozioni. I maschi non lo fanno quasi mai. Ai maschi è richiesta l’azione, non la parola. E invece questo, purtroppo, è il principale problema che impedisce al maschio nella nostra società di “diventare uomo”. La relazione tra amici non può limitarsi a due tiri al pallone o a qualche ora di Playstation o Xbox insieme - perché sia una relazione importante e utile è necessario parlarsi.
Da tempo ormai si sentono, nelle compagnie di amici maschi, gli appellativi “fratello”, “fra” o “bro”. È un modo bellissimo di riferirsi a un amico, ma siamo sicuri di capire cosa vuol dire? Troppo spesso infatti le amicizie maschili restano al livello di un generico cameratismo, invece di realizzarsi appieno sul piano della fratellanza. Il cameratismo è l’espressione di quella cultura maschile che ci viene calata sulle spalle dal momento in cui siamo nati: oltre ad essere una parola dal vago2 sapore fascista, indica per la precisione un rapporto di solidarietà e di collaborazione tra persone che condividono qualcosa di strutturato insieme - ad esempio, giocare nella stessa squadra, o essere tifosi di una stessa squadra, lavorare nello stesso team, essere soldati nello stesso plotone... in una parola, “dormire nella stessa camerata”.
La fratellanza vera è un’altra cosa, nasce spontanea anche tra persone che non per forza condividono situazioni strutturate e regolamentate. È la base dell’amicizia libera e non vincolata. Un camerata ti supporterà perché fai parte del suo stesso “giro” anche se non ti apprezza particolarmente come persona. Un fratello ti supporterà comunque, anche se fate parte di “giri” diversi.3 Il trucco nella vita è sfuggire il più possibile alle situazioni di cameratismo e cercare sempre di entrare in relazioni di fratellanza. Il cameratismo - esattamente come il conformismo - è più semplice: qualcuno ha già segnato la strada, non devi fare nulla, non devi pensare né impegnarti. La fratellanza è il sentiero più difficile, ma quando incontri amici veri - di quelli con cui puoi aprirti, parlare, gioire o soffrire - la ricompensa è altissima.
Il discorso da spogliatoio
Il maschio medio, abituato ad amicizie che non vanno al di là del livello base di cameratismo, quando parla con un altro maschio fa quelli che vengono definiti “discorsi da spogliatoio”. Discorsi privati, in cui si tende a riconfermare all’infinito il privilegio maschile, l'oggettificazione della donna, il disprezzo e/o l’allontanamento di ogni tipo di diversità nella costante idea che il maschio (come ci siamo detti tempo fa)4 debba essere definito sempre e soltanto “in contrapposizione”. Il discorso da spogliatoio è il discorso del branco, il discorso di camerati che si guardano le spalle l’un l’altro per una questione di appartenenza, un discorso conformista ben inquadrato nella cultura dominante, che non mette veramente in discussione nulla. Il tipo di discorso che - per l’appunto - normalizza la cultura dello stupro, una cultura cioè nella quale la violenza sulle donne è considerata una cosa “normale”, un pegno inevitabile da pagare per le femmine, alle quali spetta il compito di “non andarsele a cercare”.
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Questo concetto della cultura dello stupro - la rape culture - suona sempre molto male alle orecchie del maschio medio. Molti di noi non sono disposti ad ammettere di viverci dentro. Stupro è una parola orribile tanto quanto l’azione che le corrisponde, una violenza sessuale, una sopraffazione nella sfera della relazione più intima. Quando la sentiamo, la reazione che viene più spontanea è “non io, non mi riguarda, mica siamo tutti uguali noi maschi”.5 Ma dobbiamo considerare anche la parola “cultura”, il sistema di valori e di credenze in cui siamo immersi fin da piccoli. Quante volte, parlando tra maschi,6 tendiamo a etichettare una donna in base al modo in cui si veste? Questa è cultura dello stupro. Quante volte, nello spazio protetto dello spogliatoio, ci confrontiamo - possibilmente sempre usando termini volgari - sulle nostre conquiste sessuali vere o presunte catalogandole come “prede”? Anche questa è cultura dello stupro.
Parlare tra amici può e deve essere diverso. Prendiamo pure il caso del discorso sul sesso. Ovviamente si tratta quasi sempre di un argomento di estrema importanza per il maschio medio. Ma noi maschi non siamo capaci di parlarne tra di noi senza il fardello di dover anche in questo caso dare prova di virilità. L’approccio al sesso del maschio - specialmente del maschio giovane etero e cisgender - è quello di perdere la verginità il prima possibile e successivamente di scopare più esemplari di sesso femminile possibile. Quindi: l’obiettivo non è tanto il piacere del sesso, l’esplorazione della sessualità (propria e dell’altra persona). L’obiettivo è superare una prova, ottenere un “punteggio di mascolinità”. Per questo motivo, parlando tra maschi non ci si può confidare o confrontare: ci si può soltanto vantare. Il sesso è una prestazione misurabile, e basta. Il problema è che noi non dobbiamo misurare nulla7 e soprattutto non dobbiamo provare nulla a nessuno.
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Parlare (di sesso come di qualsiasi altro argomento) vuol dire cercare un terreno comune, confrontare le proprie esperienze anche e soprattutto emozionali, spiegare come ci fa sentire una cosa piuttosto che un’altra, ascoltare il rimando che ci viene dato e capire se e come possiamo farlo nostro. Ma va da sé, parlare tra amici non vuol dire convincere qualcuno della propria idea a scapito dell’idea dell’altro. Anche se - purtroppo - questa è la modalità di comunicazione che il 99% dell’umanità ha deciso di usare.
Terrore dell’intimità
Cosa serve, dunque, per attivare una relazione di fratellanza e non soltanto di cameratismo? È molto semplice, ma al tempo stesso difficilissimo: occorre creare un ambiente protetto, libero da competizioni, invidie, bugie. Solo a leggere l’ultima riga si potrebbe pensare “Duh! Non è la definizione stessa di amicizia una relazione libera da competizioni, invidie e bugie?”... e invece non è così scontato ribadirlo. Siamo umani (maschi, femmine e persone transgender, peraltro) e le cattive abitudini o i difetti di carattere ce li abbiamo tutti - a volte non basta una vita a lavorarci su.
La bromance, come la chiamano gli anglofili, si porta sempre dietro quel vago terrore dell’omosessualità che ci spinge a dire cose francamente imbarazzanti come “Voglio bene al mio amico, ma non in modo gay” o “Ci abbracciamo, ma non in modo gay”, “Dormiamo insieme e ci confidiamo le cose, ma non in modo gay”. Da piccoli non vediamo l’ora di fare i pigiama party per dormire con gli amici e parlare tutta la notte. Da grandi è facile che per fare una cosa del genere e raggiungere il giusto livello di intimità ci si stordisca con alcol o canne, per rilassarci perché siamo sempre tesi. Tensione per cosa? Perché dentro di noi c’è sempre quella vocina che ci dice che non dobbiamo mai abbassare la guardia, e dobbiamo sempre dimostrare di essere il maschio alfa, non contaminato da caratteristiche femminili di alcun tipo. Poi, detto tra noi, se anche ci scappa il modo gay non c’è assolutamente nulla di male, fintantoché la questione sia consensuale8 e non impugnata per ferire le persone.
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Una cosa è certa: parlare con un altro maschio non sempre è facile. Dipende dal carattere, molti non sono proprio abituati a esprimere i propri sentimenti (una caratteristica tradizionalmente associata al femminile) e forse è per questo che si dice che chi trova un amico trova un tesoro. La disabitudine a comunicare a livello emotivo per i maschi è causa di comportamenti potenzialmente autodistruttivi, come gli eccessi nel fumare, nel bere e nel mangiare. Sono comportamenti che in qualche modo funzionano da sostitutivi per riempire un vuoto dentro di sé.
Il vuoto che sentiamo dentro non può essere riempito da oggetti, cibo, droghe o quant’altro. Può essere riempito soltanto entrando in relazione con gli altri. Entrando in una relazione reale e sana, ovviamente. Quindi non semplicemente in una relazione di cameratismo, ma in una relazione di fratellanza o in una relazione amorosa. L’ho probabilmente già detto, ma lo ridico: la nostra personalità si definisce e si arricchisce soltanto in relazione all’altro. Ma fin dall’adolescenza - un periodo complicato in cui si fa finta di sapere tutto, o si fa mostra di disprezzare tutto - per noi maschi questo è quasi impossibile: vogliamo aderire ad un conformismo di facciata per paura di perdere il “fluido aggregante” del cameratismo. Ed è da quel momento che spesso ci precludiamo un confronto sano con le diversità delle altre persone, proprio quando questo sarebbe più prezioso.
Le femmine questa cosa la gestiscono meglio, il maschio non può chiedere aiuto, la fratellanza è malvista, il confidarsi è roba da fr*ci, e alla fine entra in gioco la depressione. Il maschio depresso non corrisponde quasi mai all’idea della depressione che uno si fa generalmente. Il maschio depresso tende a trasformare questa depressione in aggressività e comportamenti violenti verso gli altri (tipicamente femmine o persone transgender) o verso sé stesso.
Imparare dalla sorellanza
Esistono comunque molti modi per uscire dalla solitudine e confrontarsi con altri maschi: ad esempio, se si è portati verso questo tipo di cose, si può partecipare agli incontri e alle iniziative di associazioni come Maschile Plurale o Il Cerchio degli Uomini (che a Torino, da dove scrivo, è la manifestazione locale di Maschile Plurale). Si tratta di realtà che propongono classici “cerchi di condivisione”, spazi sicuri dove confrontarsi, o anche semplicemente centri d’ascolto, o che propongono iniziative di formazione sul territorio, modellati sulla base delle associazioni femministe.
Naturalmente non è detto che tutti ci sentiamo pronti per questo tipo di attivismo, che in genere parte da un percorso di crescita personale per approdare magari ad una restituzione sul territorio, spendendosi in attività di volontariato.
Ma c’è anche una soluzione più diretta al problema del confronto tra pari, ed è - come sempre - il confronto col diverso. Quello che voglio dire, ovviamente, è che per capire e comprendere meglio certe dinamiche non c’è niente di meglio che parlarne con chi ne è direttamente coinvolto o peggio ne è vittima. Parlare con una donna di sessismo e cultura dello stupro (o parlare con una persona gay o transgender di omotransfobia, per esempio) è un’esperienza che arricchisce e apre (nella testa) molte porte che prima non solo erano chiuse, ma magari non le vedevamo nemmeno, abituati come siamo a galleggiare nel patriarcato.
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Insomma: fratellanza o sorellanza, poco importa: siamo tutti umani, e i problemi che ci affliggono sono quasi sempre gli stessi. Se mi hai seguito sul discorso della curva gaussiana delle caratteristiche maschili e femminili9, converrai con me che parlare con una donna nel 95% dei casi equivale a parlare con un uomo, solo con la maggiore probabilità di un approccio meno superficiale. In fondo, non è poi così vero che noi veniamo da Marte e loro da Venere (come diceva il titolo di un vecchio libro).