Conforme a chi, conforme a cosa?
Dove parliamo dei vantaggi (pochi) e degli svantaggi (moltissimi) di uniformarsi alle richieste del patriarcato e del falso concetto di "normalità" che tenta di propinarci da qualche secolo.
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Come stai? Io sono Pietro e questo è Patrilineare, lo spazio in cui prendiamo a mazzate il patriarcato dal punto di vista maschile - ma se hai già cliccato subscribe in passato, l’informazione è probabilmente superflua. Se invece cominci adesso, benvenutə!1 E se sei qui per caso… cosa aspetti ad iscriverti?
Normale a chi?
Oggi vorrei iniziare così, col botto, con una bella frase secca, e cioè: “la normalità non esiste”. Voglio dire, non esiste realmente una “norma” in base alla quale stabilire che ciò che è diverso dal normale è da censurare. La diversità, le differenze sono la vera normalità.
Ma approfondiamo un momento insieme questo concetto di normalità, che continua a passare, indisturbato e immutabile, di generazione in generazione, nelle scuole, nei posti di lavoro, nelle famiglie, nei gruppi di amici.
Normalità è qualcosa di consueto, di generalizzato, che “sta nelle regole”, o meglio nelle norme. Ma abbiamo già due sfumature diverse. Il fatto che un evento, una caratteristica o una qualità siano “consueti” o “generalizzati” non vuol dire che siano gli unici possibili in natura. Sulla questione delle regole e delle norme… beh, è proprio lì che dobbiamo lavorare per liberarci di un concetto di normalità che - manco a dirlo - ci viene imposto dall’alto, un po’ come una gabbia invisibile, dal solito patriarcato.
Possiamo certamente affermare che il soggetto principale che nella nostra società viene considerato “normale” è il maschio bianco etero cisgender (il famoso MBEC). La femmina (bianca, etero e cisgender anche lei, ovviamente) è parte della normalità a patto che si accontenti di un minore riconoscimento sociale. Tutto quello che non rientra in questa categorizzazione binaria è “diverso”, e quindi pericoloso perché mette in discussione la normalità, intesa come sistema di norme calate sul nostro corpo e sulla nostra identità.
Ora, noi possiamo accettare il concetto di normalità che ci viene proposto dalla società - e quindi essere conformi a questa normalità. Oppure possiamo riconoscere la nostra diversità, riconoscere - come dicevo più sopra - che la diversità è la vera normalità, che ognuno di noi è un individuo a sé stante, con le sue caratteristiche e le sue qualità assolutamente diverse da quelle di chiunque altro.
E ci va coraggio, sicuramente. Fin da quando siamo adolescenti, la spinta più forte è quella al conformismo e moltissimi non riescono a liberarsi da questa pressione sociale nemmeno in età adulta. È un paradosso evidente da più di cinquant’anni2: mentre esteriormente l’adolescenza si presenta come un periodo di grande ribellione, di affermazione di un’identità “diversa da” e “in contrapposizione a”, in realtà a livello profondo è la più totale celebrazione del conformismo.
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Vuoi essere come tutti i tuoi amici, punto e basta. Se non ridi alle loro battute, se non ti vesti come loro, se non hai gli stessi gusti che hanno loro, non fai parte della tribù, non hai una vera e propria compagnia, in ultima analisi rischi di rimanere solo. Questa in sintesi è la paura di tutti gli adolescenti e anche di moltissimi adulti. Una paura che ci spinge ad essere conformi alle regole, alle idee e ai comportamenti del nostro gruppo di amici. Ma quando questo gruppo di amici diventa un “branco”, che si fa?
La normalità è deviante
Intanto cerchiamo di capire: “conforme a chi, conforme a cosa?”, come chiedeva una vecchia canzone di quando ero adolescente io.3 Il maschio, lo sappiamo, deve essere conforme ad una certa idea di maschilità codificata da film, fumetti, canzoni e ovviamente dalla succitata pressione sociale. La femmina, a sua volta, ha le sue “prescrizioni”, altrettanto rigide e codificate. Ma la cosa paradossale è che se andiamo a vedere da dove arrivano queste caratteristiche che definirebbero il “vero maschio” o la “vera femmina” le troviamo non nello spazio della normalità, ma piuttosto in quello della devianza.
Vado a spiegarmi, confidando che tu sappia già che cos’è una curva gaussiana. Tanto lo sai che comunque te lo dico lo stesso, perché sono verboso. La curva gaussiana è una curva a forma di campana, simmetrica rispetto al suo asse, che tradizionalmente viene usata per rappresentare la “distribuzione normale”. Il punto più alto della curva gaussiana è la “media”.
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Ora immagina di avere una curva gaussiana delle caratteristiche del maschio. Al centro, nel punto più alto, il maschio “medio”. A sinistra, nel punto più basso, le caratteristiche iper-maschili mentre a destra, nell’altro punto più basso, le caratteristiche ipo-maschili, ossia quelle che si avvicinano di più alle caratteristiche femminili. Adesso immagina un’altra curva gaussiana uguale, ma con le caratteristiche della femmina. Questa curva è speculare a quella del maschio, presenta le caratteristiche iper-femminili sul punto più in basso a destra.
Ora sovrapponi le due curve gaussiane, come se fossero due fogli semitrasparenti. Puoi sfasarle leggermente, ma sono comunque simili. Nel punto più alto, e nella maggior parte dell’area della curva, ci sono le più diverse caratteristiche maschili o femminili, che in matematica vengono considerate “normali” ma che in società verrebbero ridicolizzate e osteggiate. Nei punti più lontani dalla norma, a sinistra o a destra, le caratteristiche che vengono considerate normali e accettabili nella società patriarcale ma che hanno invece evidentemente un carattere di eccezionalità - e peraltro di scarsa rilevanza statistica.
Come sia avvenuto che una serie di qualità devianti sia stato codificato come normalità magari lo vedremo un’altra volta. In questo momento mi premeva soprattutto farti capire che quello che viene passato per normalità non è veramente normale. Ma il conformismo ci chiede di uniformarci a questa idea falsata di normalità. Molti ragazzi e ragazze colgono il paradosso già in giovane età, ma la maggior parte non afferra la questione e rimane intrappolato in una situazione assurda.
La mistica del gruppo dei pari
C’è da dire che chi riesce a cogliere questo paradosso non è che viva una vita proprio felicissima. “Io non sono come loro, non mi interessano le cose che interessano a loro ma vorrei essere come loro, perché vorrei essere accettato e far parte di un gruppo” potrebbe essere il pensiero di unə ragazzə qualsiasi. La mistica del gruppo è un caposaldo dell’adolescenza e non è facile fare senza. Alla base del desiderio di far parte del gruppo c’è soprattutto il senso di protezione e appartenenza che il gruppo può offrire - da soli ci si sente indifesi.
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Per questo è necessario praticare costantemente una sorta di equilibrismo sociale, per il quale serve parecchio allenamento - anche da adulti, non si può mai smettere. Si sta nel gruppo, si cerca di distinguere quali persone nel gruppo sono più simili a noi e quali invece non lo sono.4 E si sta anche da soli, per ricaricare un po’ le pile, perché stare nel gruppo avendo ben presente il paradosso della normalità è difficile.5
Occorre abbracciare la paura di stare da soli e chiedersi se si è disposti a conviverci, con questa paura: la ricompensa sarebbe quella di poter vivere la vita come si vuole, senza per forza fare quello che fanno tutti gli altri. Non mi sembra poco.
Il conformismo è facile, basta non pensare, sciogliere la propria identità nel gruppo che - come ho già accennato - può facilmente diventare un branco. Quando fai parte di un branco ti puoi sentire invincibile, ma il branco porta con sé l’omertà, il codice d’onore, la violenza, la morte. O anche solo, se vogliamo dirla in modo meno drammatico, un’adesione cieca alle regole che prevedono il non rispetto e l’umiliazione di qualsiasi persona sia diversa dal branco. 6
Diverso è chi è femmina, da svalutare e da trattare come un oggetto al servizio dello sguardo e del desiderio del maschio. Diversi sono i gay, le lesbiche e le persone transgender, colpevoli di non rientrare nel codice binario e semplificato della normalità, e di minacciare con la loro stessa esistenza l’ordine costituito. Diversi sono gli sfigati, i brutti, quelli che si vestono male, quelli che stanno su una sedia a rotelle o anche solo che portano gli occhiali, i nerd, i secchioni, gli impallinati di metal, teatro musicale, romanzi fantasy, manga. Del diverso nel migliore dei casi si ride. Nel peggiore dei casi il diverso si bullizza.
Il campione del patriarcato
Ora vado un attimo in modalità “padre”, dato che abbiamo parlato di adolescenti. Ricordi il privilegio del maschio bianco etero? C’è una persona che sposa in pieno questo privilegio: il bullo.
Il bullo riconosce il privilegio e se ne fa forte, lo usa come un mantello che gli consente di fare qualsiasi cosa ai danni di un’altra persona, perché lui fa parte dei “normali” ed è preciso dovere sociale dei “normali” estirpare l’erba cattiva rappresentata dai “diversi”. Il bullo individua il diverso (per qualsiasi caratteristica in base alla quale non sia conforme al suo concetto di normalità) e lo vessa costantemente, causando danni fisici e psicologici che spesso i coetanei non bullizzati non riescono a riconoscere: ansia, depressione, attacchi di panico, autolesionismo e in molti casi anche pensieri suicidi.
In tutte le scuole c’è quasi sempre una forte spinta anti-bullismo e una buona programmazione scolastica che mira a sensibilizzare gli studenti, ma chissà come mai il bullismo è sempre là. Forse perché è figlio di una cultura patriarcale tossica che è talmente diffusa da non venire nemmeno riconosciuta, e che invece è vissuta come “normale”. Purtroppo a volte sono gli adulti stessi a minimizzare gli atti di bullismo considerandoli delle “ragazzate” e questo non aiuta per niente.
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Senza voler fare della facile psicologia, e comunque semplificando molto, la personalità del bullo tende a perseguitare il diverso (o il debole) per paura di trovare tracce di quella debolezza o di quella diversità in sé stesso. In un certo senso, quindi, il bullo difendendo l’ordine costituito dei “normali” difende anche sé stesso dalla contaminazione. Un grande classico del bullismo maschile nelle scuole è quello di stampo omofobico. Dio ci scampi dai fr*ci e dai ricchi*ni, non è pensabile altro orientamento che quello eterosessuale.7
Ebbene, non è difficile vedere che l’insulto, gli scherzi di cattivo gusto, la violenza verbale, psicologica e fisica nei confronti di un compagno gay o transgender nascondono l’intima paura di poter essere gay, bisessuale o magari la sensazione sconcertante di non identificarsi appieno con il proprio genere. Il bullo è quasi sempre una persona che ha paura, e che andrebbe aiutata a superare le sue paure (pazzesco, eh?), un maschio senza consapevolezza, con la crescita bloccata.
Il bullismo omofobico e transfobico non è l’unica forma di bullismo esistente, è ovvio.8 Mi sono soffermato di più su questo aspetto perché i maschi gay o transgender nella nostra cultura sono un po’ l’apoteosi del “diverso”. La loro supposta diversità, invece, è assolutamente normale. È molto importante capire questo: essere vittima di bullismo omofobico in giovane età può far credere anche alla vittima che essere omosessuale o non essere conforme a un’identità di genere binaria sia una cosa sbagliata, e che la propria vita vada vissuta nell’ombra e in solitudine.
Ecco perché tra conforme e diverso io - parlando con mio figlio così come con altri ragazzini e anche con moltissimi maschi adulti - sosterrò sempre il valore di essere diverso e di stare dalla parte del diverso. Il valore di sfidare la “normalità” quando è causa di ingiustizia, la necessità di mettere un freno (in me stesso prima ancora che negli altri) a un modo di esprimersi sessista, omo-transfobico, razzista, abilista, etc.
In sintesi, l’obbligo morale di non “rendere normale” quello che può causare disagio ad alcune persone e che - diciamocelo - dovrebbe causare disagio anche a noi.