Tradurre le emozioni: il maschio e il racconto di sé
Ascoltare le proprie emozioni è già difficile. Tradurle in sentimenti? Per alcuni è quasi impossibile. Nel racconto del maschile c'è tanto da imparare.
Jean Pierre Léaud nel ruolo di Antoine Doinel in Les 400 coups (1959)
Ogni tanto penso “magari questa parte di saluti iniziali potrei anche farmela fare da un assistente AI, tipo ChatGPT, Copilot o Deepseek” (strumenti che comunque uso nel mio lavoro quotidiano soprattutto per raccolta fonti, per un confronto sugli spunti di riflessione o per organizzare le scalette). Poi però no, dai: è il punto in cui mi posso divertire a salutarti in modo scialla e diverso ogni volta, in cui posso allertarti sull’eccessiva lunghezza dell’email e prepararti al tema che sta per arrivare, inesorabilmente dedicato a qualche aspetto di autocoscienza maschile che da un lato ti irrita ma dall’altro - lo so - ti dà da pensare. Stavolta (ri)parliamo di emozioni, ma anche di sentimenti. Se non conosci la differenza, questa uscita di Patrilineare è proprio per te. Ah, tutta la mail è punteggiata da immagini di film di François Truffaut e in particolare del cosiddetto ciclo di Antoine Doinel, perché quando penso al racconto dei sentimenti dal punto di vista del maschio, io penso sempre e solo a lui. Consigliatissimo vederli, prima o dopo la lettura della newsletter.
Aprirsi o chiudersi? Parlare o agire (male)?
C'è una distanza, una faglia, che percorre il maschile contemporaneo (me la immagino proprio come quelle crepe che si aprono durante i terremoti). È lo scarto tra ciò che sentiamo e ciò che riusciamo a dire. Tra la rabbia che ci monta in gola e la parola che non esce. Tra il nodo allo stomaco e il racconto che resta bloccato. È una distanza che, quando non viene colmata, non si limita al silenzio: esplode, si chiude, a volte distrugge. Ti ho già parlato in precedenza di uomini e di emozioni (nella fattispecie di contatto con le proprie emozioni, e possibilmente anche con le emozioni degli altri).
Le emozioni e i sentimenti però non sono la stessa cosa, anche se nel linguaggio quotidiano tendiamo a confonderli. Le neuroscienze1 ci dicono che l'emozione è una reazione immediata, istintiva, fisiologica a uno stimolo: qualcosa che si attiva nel corpo prima ancora che ce ne rendiamo conto. La paura, la rabbia, il disgusto, la sorpresa, la gioia: risposte automatiche, antiche, non a caso protagoniste dei film Pixar Inside Out proprio perché - diciamo così - note a chiunque, anche in più tenera età. Il sentimento invece è un'elaborazione secondaria e più complessa: è ciò che accade quando l'emozione passa attraverso la mente, la memoria, la narrazione di sé. Un sentimento è, in un certo senso, un'emozione che ha preso parola. Che è stata riconosciuta, capita, inserita in una storia.
Ecco perché parlare di sé è così difficile per molti uomini. Perché tradurre un'emozione in sentimento richiede tempo, strumenti, vocabolario, ma soprattutto la possibilità di riconoscerla senza vergogna, cosa che già a monte a noi di norma non è concessa (a meno che non si tratti di rabbia, e in quel caso è comunque più facile tradurla in azioni che non in parole). Ma come si costruisce questa capacità? A me piace pensare che la faglia di cui dicevo prima si sia creata nel corso del Novecento, ma che se tornassimo alle origini della modernità potremmo forse imparare qualcosa di nuovo (cioè, vecchio di 250 anni, ma oh… pare nuovo).
Jean Pierre Cargol e François Truffaut in L'enfant sauvage (1970)
Diciamo buongiorno, quindi a Jean Jacques Rousseau: lo vedi? È lì, giovinetto, nella campagna svizzera, che si eccita facendosi sculacciare dalla figlia del pastore! Scherzi a parte, ho appena citato uno degli episodi più chiacchierati e analizzati da Rousseau stesso in quello che possiamo considerare “la madre di tutte le autocoscienze”. Rousseau, nel Giulia o la nuova Eloisa e soprattutto nelle Confessioni, è uno dei primi uomini moderni a mettersi a nudo. A dire, in pratica "ora vi racconto non tanto quello che ho fatto, ma chi sono, cosa e come ho sentito, anche quando mi vergogno di ciò che ho provato".2 Un gesto dirompente per l'epoca, no? Ma se in Rousseau assistiamo a qualcosa che ricorda (o meglio anticipa) la psicoanalisi, è Goethe - qualche decennio dopo, con I dolori del giovane Werther - a rompere gli argini del sentimentalismo borghese: Werther sente, e sente troppo, fino a non poter reggere l'urto del rifiuto amoroso. L'amore, quando non viene corrisposto, lo disgrega: Werther non sa riflettere sulle sue emozioni, è tutto impulso. E quindi si toglie la vita.
Quel gesto tragico è diventato simbolo di una generazione: il romanzo fu persino accusato di "istigare al suicidio". Ma non è solo un problema ottocentesco. Il rifiuto è un problema ben presente anche al maschio contemporaneo. Se guardiamo con attenzione ai Werther di oggi, ci accorgiamo purtroppo che qualcosa è cambiato. Oggi, l'uomo che non sa reggere il rifiuto, difficilmente si suicida: prevalentemente uccide. Uccide l’oggetto della sua ossessione amorosa, che con il suo rifiuto gli ha praticamente strappato l’identità e il senso, e poi casomai si uccide (o quantomeno ci prova). La violenza maschile è quasi sempre il frutto di un'incapacità di stare dentro il dolore, dentro la perdita, dentro la vulnerabilità. Là dove Werther implodeva, oggi troppi uomini esplodono. Perché la cultura patriarcale ha dato loro un solo modo per esistere: dominare o sparire.
Jean Pierre Léaud nel ruolo di Antoine Doinel in L’amour à vingt ans (1962)
Da Werther in poi, mi viene da dire che si costruisce una sorta di genealogia, un albero silenzioso di maschi feriti che non sanno dove mettere quello che provano. Lo troviamo nei romanzi, nella cronaca, nel mito dell'uomo duro e risoluto che non deve chiedere mai. L'uomo che non piange, non racconta, al limite si affida alla fredda razionalità: un tipo di protagonista narrativo che ritroviamo facilmente anche in un periodo a noi più vicino, ad esempio nel cinema d’azione degli ultimi 40 anni.3 Perché questi uomini non parlano? A volte per orgoglio, altre per paura, quasi sempre per abitudine. Ma se non racconti un’emozione, quella non si trasforma mai in sentimento. Resta un grumo. Un gesto trattenuto. Una bomba a orologeria.
Se Werther non sa accettare il limite né reggere il dolore del rifiuto e si uccide, dopo di lui - in epoca romantica prima e decadentista poi - nasce un'intera stirpe di uomini sofferenti, poeti maledetti, artisti scapigliati, amanti tormentati. Uomini che sanno sentire il dolore... ma solo il proprio, e in ultima analisi si compiacciono della loro sofferenza. Con un altro bel salto temporale arriviamo alla modernità positivista e poi novecentesca dell'uomo tutto razionale (e al tempo stesso alienato dalle proprie emozioni): sentire diventa sconveniente e pericoloso, la sicurezza è tutta nella chiusura e nel silenzio. Questa cosa ovviamente non può durare a lungo, ed ecco che - ormai da qualche decennio - il maschio va in crisi: gli viene richiesto di parlare di quello che prova ma non sa più farlo. Per questo, piuttosto agisce (male).
L'acting out, in psicoanalisi, è l'agito che prende il posto della parola. Quando non riesco a raccontare esplodo, colpisco. La rabbia che non trova nome diventa urlo. La paura, controllo. Il dolore, chiusura. E a volte – questa cosa è sotto gli occhi di tuttə noi – la frustrazione si fa violenza. Non sempre e non in tutti, certo. Ma in molti casi il maschio ferito non sa piangere, non sa parlare, e allora colpisce. Non è colpa nostra: ci socializzano così (per citare storpiandola una famosa battuta di Jessica Rabbit). Infatti è precisamente questo che si intende quando diciamo che la violenza di genere è un problema sistemico e che non ha alcun senso fare i soliti distinguo “non tutti gli uomini”, “io non sono così”: l’unica reazione accettabile è “prendo atto, porto a casa e vedo come posso fare per contribuire a risolvere il problema”.
Jean Pierre Léaud nel ruolo di Antoine Doinel in Baisers volés (1968)
Raccontarsi veramente, come faceva Rousseau più di due secoli fa, non è solo una forma di introspezione: è una forma di responsabilità. È dire "io sto così" invece di agire quel “così” sugli altri. È nominare le proprie paure, le proprie fragilità, e accettare che anche questo fa parte dell'essere maschi. Si tratta solo di imparare a riconoscere. A tradurre. Per esempio: quanto tempo è passato dall’ultima volta che hai raccontato davvero a qualcunə come stai? Non per ottenere qualcosa, non per giustificarti, ma solo per abitare meglio te stesso? Parlare tra amici veri dovrebbe servire a questo. Tradurre le emozioni non è un lusso. È un’urgenza. E forse è il gesto più rivoluzionario e necessario che possiamo compiere oggi, noi maschi.
Linkando qua e là
Articoli, post, notizie che mi hanno fatto pensare “aspetta che me lo segno per Patrilineare”… E se le notizie non sono qui, non disperare: a volte ce le scambiamo sulla chat di Patrilineare!
Gérard Depardieu al tribunale di Parigi - AFP/Getty Images
Dal Guardian: il processo a Gérard Depardieu dimostra come i tribunali (francesi, ma in generale di tutto il mondo) siano un luogo infernale per le vittime di violenza sessuale.
Maria Cristina Valsecchi e Barbara Piccininni su ValigiaBlu approfondiscono il ruolo dei movimenti anti-scelta nelle scuole, raccontando dove e come si infiltrano in modo sempre poco trasparente.
Non è tanto il porno in sé, ma la rappresentazione della violenza nel porno che dà un imprinting negativo ai giovani maschi: Ms Magazine e il suo punto di vista su Adolescence scritto da Ashley Judd (proprio lei, l’attrice)!
Del Podcasterone sinceramente non volevo nemmeno parlare, ma lo fa egregiamente Alice Valeria Olivieri su Rivista Studio. Anche nella manosphere, noi facciamo ridere.
Il Dubbio riflette sulla sentenza della Corte Suprema inglese sulle donne transgender e si chiede se non sia meglio “legalizzare” gli altri generi e superare il binarismo delle anagrafi.
Una storia millenaria del patriarcato da Damiano Rizzi su Il Fatto Quotidiano: te lo scrive un uomo, puoi anche crederci…!
Come volevasi dimostrare, l’identificazione degli hater sui social è ostacolata dalle piattaforme stesse (che sui contenuti d’odio in realtà prosperano).
Partiamo con l’inserto letture: Daria Catulini su Il tascabile mette a confronto i due volti del materno in Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini e Donne che allattano cuccioli di lupo di Adriana Cavarero.
Su Il libraio, una presentazione del più recente libro di Victoire Tuaillon Il cuore scoperto - Per ri-fare l’amore per ADD Edizioni.
Sul Manifesto, una recensione del libro Il femminismo della mia vicina, di Ginevra Bompiani e Luciana Castellina. Su Strisciarossa, puoi approfondire con un’intervista alle due autrici.
Per avvicinarci ai testi storici del femminismo, Eloisa Morra su Lucy parla della riedizione (per Nottetempo) di La mela e il serpente di Armanda Guiducci, uscito la prima volta nel 1974.
Anna Bogoni e Carlotta Sisti su Elle firmano un importante reportage sul perché le donne non denunciano le violenze di genere.
Hai presente quando i sintomi di una malattia vengono male interpretati o non riconosciuti? Alle donne questo capita spesso, anche perché la medicina è tradizionalmente tarata su corpi maschili. Laura Antonella Carli su Il Tascabile prova a vedere se qualcosa sta cambiando.
L’esplorazione rettale è ancora sempre il modo migliore per esaminare la prostata? Se lo chiede il Post (spoiler: no, se non è accompagnato anche da altri esami).
Francesca Polizzi su Domani la tocca piano sul gender pay gap: è come se le donne lavorassero un giorno in meno a settimana.
Nadia Terranova su La Stampa fa un resoconto di un evento cui vorrei aver partecipato: un confronto tra Adriana Cavarero e Judith Butler all’Università di Padova. Due femminismi apparentemente inconciliabili.
Negli ultimi giorni su La Stampa c’è stato un notevole dibattito sulla violenza ostetrica, cui va incontro una discreta percentuale di donne in Italia: il pezzo originario di Valentina Arcovio e l’intervista a Silvia Vaccari, presidente della Federazione Nazionale degli Ordini della Professione di Ostetrica. Sul tema in senso lato, un buon riferimento è anche la newsletter di qui su Substack: Rompere le uova.
Su OrticaLab, un pezzo a proposito degli inquietanti manifesti sulla “violenza di genere contro gli uomini”. Ecco gli MRA all’italiana…
Violenza invisibile sulle donne: il 75% degli italiani non sa riconoscerla secondo una ricerca di Bain & Company, CADMI e Differenza donna
Nazionalismo e patriarcato vs. femministe internazionali federaliste: un interessante approfondimento politico su Eurobull
Paolo Valoppi sul Post scrive un breve memoir ironico ma molto vero sull’idealizzazione del tronista, un maschio alfa ante litteram.
Anche Il Post si è accorto della femosphere e delle influencer tradwives… alcune delle quali a loro volta stanno cercando di disintossicarsi, un po’ come certi incel!
Le chiese e le farmacie… ma certamente!
Cosa mi gira in testa?
Tutti gli anni si prospetta questa cosa, che io avrei un duplice accredito per il Salone del Libro di Torino: quello da giornalista e quello da espositore. In più, il Salone è veramente a due fermate di Metro da casa mia. Eppure, riesco sempre a visitarlo per poco (cioè, magari sono lì per lungo tempo, ma lavorando in stand non riesco a staccarmi) e in fretta. La mia visita si traduce in una sorta di raid / livello di videogame platform in cui gli obiettivi sono due: portare a casa un piccolo bottino di libri, compatibilmente con le mie finanze che a metà mese già languono e con lo spazio sugli scaffali di casa e salutare più gente possibile che vedo solo una volta l’anno al Salone, come ad esempio molti substackiani).
Incontro al vertice degli spettinati: Patrilineare e Linguetta! - Selfie impietoso dell’autore
Anche quest’anno non ha fatto eccezione: tra le 18:30 e le 20:00 sono planato come un falco su alcuni stand che mi interessavano e ho scambiato dei soldi con delle pagine a fumetti (La prima volta di ogni cosa di Dan Santat, già National Book Award, e Bea Wolf di Weinersmith e Boulet nella collana Bao curata da Zerocalcare) e altre pagine di fiction e nonfiction come Il cuore scoperto di Victoire Tuaillon, Femminismo terrone di Claudia Fauzia e Valentina Amenta, Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini, Charming Men - La storia degli Smiths (tanto amore!!!) di Fernando Rennis e soprattutto uno di quegli acquisti casuali che mi guardava da dentro lo stand Adelphi, mi chiamava e mi blandiva forte delle sue 1.170 pagine finché non l’ho portato in cassa: Gormenghast di Mervyn Peake.4 Non so se capita anche a te di essere chiamato dai libri. È una sensazione inquietante, ma bella.
Raccomandazioni
Allora: siccome ti vedo che sbuffi e non hai tempo né voglia di partecipare alla “Raccolta punti di Patrilineare”, ho pensato di facilitarti le cose. Da oggi bastano veramente TRE (3) referenze per ottenere il primo dei tre premi, il preziosissimo KIT di Patrilineare. Se clicchi tre volte sul pulsante “Invita un amico” e mandi il link ad almeno tre persone che potrebbero iscriversi vinci il premio.
Non ti sto a dire che ci sono anche altri premi per i quali comunque ho abbassato radicalmente la soglia di vincita. Controlla la leaderboard e vedi tu stesso come è facile guadagnare anche gli altri premi (sono solo due, però dai… partecipare è divertente).
In ogni caso, se ti piace quello che leggi puoi sempre lasciarmi un paio di euro - una tantum o come donazione periodica - su Ko-fi (pigia la GIF qui sotto). Il Grande Spirito della maschilità te ne renderà merito.
A questo punto, dopo averti stordito con Jean-Jacques Rousseau e Wilhelm Goethe, direi che è ora dei saluti. Ricorda sempre che piuttosto che togliersi la vita o ammazzare qualcuno è sempre meglio farsi sculacciare dalla figlia di un ecclesiastico nella campagna svizzera. Entrare in contatto con le proprie emozioni non vuol dire essere in loro completa balìa, ma provarle, riconoscerle, raccontarle.
Patrilineare e Linguetta: le mie voci maschili preferite su Substack (giuro)! Grazie per questa analisi su un tema che mi tocca da vicino in casa. La tengo a portata di mano per trovare ispirazione e incoraggiamento quando sicuramente servirà.
Ma che bello ritrovarmi col mio faccione (già un po' provato dallo stordimento da Salone) dentro questa super puntata di Patrilineare: grazie Pietro!