Per crescere un figlio ci vuole un villaggio. O una famiglia queer.
Ovviamente ho passato gli ultimi giorni a leggere (e rileggere) "Dare la vita" di Michela Murgia: un bel regalo postumo che stimola tante riflessioni.
La famiglia ideale? Magari! - Photo by Medical News Today
Come stai? Io abbastanza bene, sono passati dieci giorni dall’ultima volta che ci siamo sentiti e ho accumulato un po’ di stimoli da riportarti: penso sempre che non avrò nulla da dire (un po’ come
) e poi invece guarda qua. Manco a dirlo, dieci giorni fa stavo leggendo “Dare la vita” di Michela Murgia, poi l’ho riletto ancora, sottolineando qua e là come faccio quando leggo i libri illuminanti, o quantomeno quelli che mi spingono a riflettere, a rimuginare.Non sempre sono totalmente d’accordo con quello che scrive1 Michela Murgia: ad esempio la definizione di queer che lei propone è molto “allargata”, però filosoficamente parlando affascinante. La queerness è “la scelta di abitare sulla soglia delle identità […] accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera e promette di condurre alla più autentica felicità relazionale […] Una scelta radicale di transizione permanente, attraverso la quale chiunque può decidere di non confinare sé e chi ama (non solo chi desidera sessualmente) in alcuna definizione finale, nemmeno quelle della comunità LGBTIA+ a cui pure magari appartiene”.
Posso immaginare come alla suddetta comunità, cui in questo passaggio Murgia “toglie” la Q proprio per rimarcare una più vasta esperienza di queerness,2 possa aver avuto con lei accese discussioni sulla questione. In me (che del resto porto un braccialetto con su scritto “Queer e ora”, proprio come il titolo del capitolo del libro da cui è tratto il passo precedente), questo slittamento di senso verso la “soglia dell’identità” e verso l’indefinito risuona in modo molto personale.
Fin da quando Murgia, nei suoi ultimi mesi di vita, parlava della sua “famiglia queer” io pensavo a quel proverbio credo africano che recita “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”. E pensavo: forse non un intero villaggio, ma magari una famiglia queer nel senso in cui lo intendeva Michela sì.
Io sono marito e padre in una famiglia nucleare apparentemente “normalissima” (nel senso che poi ognuno di noi ha la sua personale queerness), cittadina, isolata nell’appartamento di un condominio in cui da un piano all’altro non ci si conosce. Una famiglia nucleare che è totalmente staccata dalle generazioni precedenti (un po’ perché abbiamo un’età visto che abbiamo avuto la Creatura già attempati, e un po’ perché i nonni non sono proprio nella stessa città). Insomma, siamo soli.
Grazie a decenni di conquiste sociali la famiglia nucleare non è più la “radice di tutti i mali”,3 quantomeno nel senso che non è più un’istituzione gerarchica e patriarcale (sto scherzando, lo è sempre, ma negli anni il diritto ha messo qualche pezza per limitare i danni che può fare un “padre padrone”). Ma è comunque un’istituzione che scricchiola, anche quando ci sono le migliori intenzioni. Scricchiola perché, senza una rete di sostegno, la famiglia nucleare non ha risorse e resta abbandonata a sé stessa.
Quando penso alla scelta della monogamia e alle promesse che ci siamo fatti io e mia moglie (promesse che sono ben esplorate anche in “Dare la vita”, nella seconda parte), sono ben conscio del fatto che si tratta di un impegno importante che va rinnovato ogni giorno per poter essere efficace, per poter costruire qualcosa insieme. Se questo impegno risultasse “troppo”, siamo tutti d’accordo che sarebbe meglio separarsi. Ma, io credo, la scelta della monogamia è anche una scelta che investe l’altra persona di tanta, troppa responsabilità. Essere in due genitori, nel ventunesimo secolo, non è sufficiente. Il partner è caricato di moltissime aspettative: deve aiutarci a pulire la casa, deve contribuire alle spese, deve essere possibilmente sempre sexy e tenere acceso il fuoco della passione, e ovviamente deve essere un genitore presente e responsabile.
In questo senso io invidio chi sperimenta relazioni poliamorose soprattutto per una cosa: la divisione dei compiti nella cura dei figli e nella routine quotidiana. La non monogamia etica, sotto questo aspetto, è veramente la soluzione migliore per essere più felici.4 Immagina quattro adulti che vivono insieme, con unə o più bambinə, in una casa grande che possono permettersi se hanno quattro stipendi fissi, in cui il carico mentale e pratico è suddiviso tra il doppio delle persone: praticamente un sogno.
La gestione del tempo in due - Photo by wayhomestudios - Freepik.com
Questo sogno è quello della famiglia queer di Murgia, che per me può valere anche senza per forza andare a letto tutti quanti gli uni con gli altri. Anche perché sulle relazioni poliamorose c’è un grande fraintendimento: non si tratta di una “coppia aperta”, ma come dice la radice stessa del termine, che parla di “amore”, si tratta proprio di stabilire relazioni affettive stabili con più di una persona.5 Quindi non il disimpegno, ma un impegno ancora più grosso. Gelosia e questioni di soldi devono essere gestite accuratamente e possono minare anche questo tipo di relazioni: è ovvio che più persone ci sono in una relazione, più discussioni e pianificazioni e compromessi ci sono da fare6. Non è in discussione la monogamia (molti, come me, la preferiscono come scelta di relazione e comportamento sessuale): sono il matrimonio e la famiglia nucleare, come prodotto della monogamia, che semplicemente non stanno più funzionando.
Non ha alcun senso spingere sul valore tradizionale della famiglia mamma+papà+bambinə quando nessuno più vuole impegnarsi “per sempre” (le famose promesse) o peggio ancora dare la vita a una nuova creatura in una società in cui non c’è nessuna rete di supporto, manca il congedo parentale paritario, mancano gli asili nido, manca qualunque tipo di “agevolazione per la famiglia”. Non siamo stupidi. Metteremmo tutti su famiglia se si investisse su questi aspetti.
Per chiudere, comunque: io non mi lamento della mia relazione monogama. Ma se potessi vivere in una casa grande dove vivono anche altri adulti (per esempio, che so, la coppia dei miei migliori amici con la loro figlia) ci metterei la firma. Non so tu.
Linkando qua e là
Articoli, post, notizie che mi hanno fatto pensare “aspetta che me lo segno per Patrilineare”…
Antologie scolastiche sessiste: sì o no? - Photo by fabrikasimf on Freepik
Questo è un dissing un dibattito di qualche giorno fa che è rimbalzato da Il Post a Valigia Blu7 e che ho trovato molto interessante. Riguarda il supposto sessismo nelle antologie scolastiche di letteratura italiana. Si può essere in accordo con Lorenza Pieri e Michela Volante (quest’ultima anche autrice di testi scolastici) che sul Post sottolineano tutti i passi “tossici” dei grandi classici spesso proposti a scuola. Ma dovrebbe far riflettere (in positivo) anche Galatea Vaglio su Valigia Blu che “debunka” il pezzo del Post raccontando quanto nelle scuole ci si sta sforzando di inquadrare testi problematici aprendo alla discussione in aula su tematiche di genere. Il primo articolo è un po’ sui generis ma fa riflettere sulla lunga storia del sessismo. Il secondo è più circostanziato, ma soprattutto apre uno spiraglio di speranza sulla scuola italiana.8
A scoperchiare il vaso di Pandora dell’inadeguatezza politica e sociale dell’Italia e degli italiani in materia di persone trans ci pensa
con un pezzo su Fanpage a proposito del ragazzo trans che ha scoperto di essere in gravidanza. La redazione del Post aggiunge al dibattito un articolo in cui si spiega bene il fenomeno dei “seahorse dad”. Anche Vera Gheno gli ha dedicato la più recente puntata del suo podcast Amare parole. su Valigia Blu (come moltə altrə su Instagram) mette il dito su quello che consente alla “piaga” di esistere: il gramellinismo (il riferimento è al “caso Bandecchi”, campione del maschio medio italiano™️).Osservatorio Pornhub: Ethical Capital Partners sta mettendo in pratica un set di regole per assicurarsi che i video caricati siano consensuali e che i visitatori siano effettivamente adulti…
OK, questo è un pezzo di costume del Post che mi ha lasciato un po’ interdetto ma che in fondo è una buona notizia, no? E Matty Matheson è il TOP! 💋
È diventata un po’ la barzelletta degli Oscar: per Barbie, Margot Robbie e Greta Gerwig non hanno ricevuto nomination,9 Ryan Gosling sì. In pratica, la trama del film - come ha scritto Brad Meltzer su X.
Tre domande a… Gaia Giordani
Gaia Giordani è una content strategist che da sempre si interessa dei contenuti, della loro fruizione e del loro consumo da parte del pubblico, analizzando soprattutto gli aspetti sociologici e culturali. Oltre al suo lavoro per agenzie di comunicazione e di docente, nel 2023 ha cominciato a interessarsi di intelligenza artificiale generativa con un taglio molto particolare sulla rappresentazione di genere, lanciando il progetto “Infiniti Ritratti”, che mi ha spinto a farle qualche domanda…
Uno degli infiniti ritratti “subbacqqui” di Gaia Giordani - Photo by gaiagiordani
Ciao Gaia, prima di tutto una premessa: da content strategist, come sei arrivata ad analizzare la rappresentazione di genere su Midjourney?
Allora… diciamo che in circa un decennio a Cosmopolitan - in cui sono stata a capo della redazione digital - ho maturato una forte consapevolezza rispetto ai contenuti che esplorano l’identità della donna, in un periodo (gli anni Dieci) in cui queste tematiche iniziavano davvero a farsi sentire dal pubblico mainstream dopo quasi mezzo secolo dalle lotte femministe delle nostre nonne. Insomma, mi sono ritrovata a lavorare nei media quando il femminismo di quarta ondata travolgeva per la prima volta le lettrici ventenni. Quindi chi, come me, in quel periodo lavorava nell’editoria o nella comunicazione verso audience definite per genere (cioè le donne, nel mio caso) si misurava quotidianamente con bias10 e punti ciechi culturali. Ricordo perfettamente di aver scritto articoli di gossip che facevano body shaming alle celebrity, o sul “corpo da spiaggia” e la prova costume, o su cosa fare per piacere a un uomo. Per me, come credo per molti, la consapevolezza è arrivata con una parabola, non di colpo. È un processo educativo che non si deve mai fermare, che deve evolversi con la società. Oggi creare contenuti che tengono conto dell’identità di genere presenta sfide sempre più enormi perché con assoluta certezza si finisce per schiantarsi contro lo stereotipo. Ed ecco il motivo profondo per cui, trovandomi a “giocare” con Midjourney, ho deciso di esplorare questo tema.
Ecco, allora parliamo di Infiniti Ritratti: com’è nato il progetto, e in che senso pensavi di “testare le potenzialità della produzione AI seriale attorno alla figura femminile“?
Infiniti ritratti è nato nella fine del 2022 come un esperimento per vedere come Midjourney 3 elaborava la figura della donna. Mi sono accorta che non riuscivo a generare un volto di donna meticcio, ovvero non riuscivo a creare un prompt che mettesse insieme le caratteristiche di una donna di colore e di una donna asiatica. Parliamo di volti che nella realtà esistono e appartengono a milioni di persone nel mondo, quindi hanno anche una rappresentanza notevole nella realtà. Per ottenere con la AI questa rappresentazione ho dovuto creare prima una donna africana e poi una donna asiatica che però mi sono comparse in questo modo: quella africana con il foulard a stampa afro e un collier come quello birmano, e la donna asiatica in kimono tradizionale dell’estremo oriente. Una rappresentazione molto stereotipata. A quel punto ho dovuto fare un blend, ovvero mixare manualmente le due facce attraverso l’apposito strumento di Midjourney, per ottenere il volto che avrei voluto. Anche per creare delle fisicità che non fossero quelle stereotipate - ovvero una donna con un corpo giovane, snello e con delle proporzioni del seno, del busto e dei fianchi un po’ da Barbie, per capirci - avrei dovuto creare io prima delle donne molto sovrappeso poi delle donne “standard” e fare dei blend, perché la AI non capiva l’indicazione di creare una donna plus size (ora sì, ma ancora con qualche resistenza). Il progetto è nato con il divertimento di continuare a fare questi blend e rigenerare continuamente delle donne. Mi sono accorta che moltissime lavorazioni generavano una latenza di elementi che erano stati introdotti con il prompt originario e poi mescolati nei blend. È stata una specie di esperimento genetico: dopo decine o centinaia di rielaborazioni da parte di Midjourney si ripresentavano alcuni elementi come stampe afro, gioielli o kimono in contesti diversi.
Senza dilungarci su tutti gli aspetti problematici che le IA generative pongono in diversi ambiti della cultura e della società, è vero che le IA hanno un bias "patriarcale" di rappresentazione della figura femminile?
Sì, confermo che il bias c’è, e si notava moltissimo nelle prime versioni delle AI generative. Il problema è noto e ci sono team dedicati all’interno delle diverse società che operano nei LLM per ridurre la rappresentazione stereotipata. In ogni caso ad oggi, se non viene specificato il genere nel prompt, quando si chiede di visualizzare un medico viene rappresentato un uomo, mentre un infermiere (che in inglese è neutro rispetto al genere) è rappresentato come donna. Se si chiede di rappresentare una donna che lavora, viene messa alla macchina da scrivere o a insegnare o a fare dei lavori domestici; l’uomo viene rappresentato con un completo business e in generale a fare lavori storicamente presidiati da uomini. Anche nella rappresentazione di scene molto più complesse, come per esempio la gestione dei compiti familiari, quando si inserisce il termine “genitore” assieme al bambino quasi sempre c’è una donna. La figura maschile non appare, se non dopo moltissime lavorazioni. Quindi il contesto ha ancora un fortissimo potere nel condizionare e rafforzare il bias. È chiaro che per superarlo ci sono degli strumenti: utilizzare un prompt il più possibile specifico e descrittivo di ciò che vogliamo rappresentare, quindi esplicitare che cerchiamo anche un padre o che quel medico dev’essere donna, ma ovviamente questa è una forzatura che viene delegata all’utilizzatore, mentre invece sarebbe utile che il software stesso avesse un frame molto più ampio e molto più inclusivo. È chiaro che queste reti neurali sono state addestrate prevalentemente da maschi bianchi etero cis di età elevata (la stragrande maggioranza di chi lavora nelle discipline STEM) e quindi non ci possiamo aspettare che la visione sia molto diversa dagli stereotipi radicati.
Cosa mi gira in testa?
Riallacciandomi al tema della precedente uscita (le mie amate serie di animazione) non posso non parlarvi adesso di Hazbin Hotel, la serie di Vivienne Medrano (aka VivziePop). A cinque anni dal debutto del pilot autoprodotto su YouTube, A24 e Bento Box Entertainment hanno rilasciato la prima stagione su Prime Video.11 Inutile dire che c’è queerness a pacchi, un sacco di volgarità e anche un bel po’ di tutto quanto una volta si definiva exploitation. Cioè: una serie animata, horror e soprattutto musical? Shut up and take my money!
Charlotte Morningstar in Hazbin Hotel - © A24
Ti lascio qui un meraviglioso film-concerto ambientato a Parigi all’interno del Grand Palais di L’imperatrice, la nuova band francese che mi ringrazierai di averti segnalato. Il french touch scorre potente in loro.
In questi giorni sto leggendo anche Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi, nel quale è contenuto il suo famoso pamphlet “La donna clitoridea e la donna vaginale” del 1971 (un bell’excursus tra Freud, Marx, Wilhelm Reich e la militanza femminista). Nel ‘71 io avevo un anno, ovviamente, e non potevo conoscere Carla Lonzi. Ma questa cosa mi ha fatto pensare ad un libro che leggevo spesso di nascosto negli anni ‘80, Il rapporto Hite (uscito nel 1976) di Shere Hite, che i miei tenevano sullo scaffale alto della libreria. Quello che da adolescente conoscevo della sessualità femminile lo devo soprattutto a quel libro… Ma di Shere Hite riparleremo presto.
Come ogni volta grazie di leggermi, come ogni volta newsletter fiume in piena. Confido che ormai tu abbia imparato a conoscermi e a trascurare questo mio difettuccio della prolissità… Puoi mettermi un cuoricino (fa sempre piacere) ma se puoi, inoltra questa mail a tre persone che potrebbero apprezzarla: fa ancora più piacere! Alla prossima, stai bene.
Bella riflessione. Ma perché non esplorare una direzione più affine anche a chi non ne vuole sapere di queerness oppure coppie aperte? Una volta le famiglie coabitavano (fratelli adulti, zii e nipoti, nonni).
A me la “famiglia allargata” in questo senso piace tantissimo ed ho vissuto quasi tutta la mia infanzia con queste alchimie di prossimità che permettono case confortevoli e grandi, tante mani per aiutare e la sensazione di non essere mai abbandonati.
Possibile anche tra amici, tra persone affini, non implica una intimità sessuale: c’è una intimità calda di focolare domestico in queste relazioni, che comunque vanno gestite con mediazioni cui la società odierna ci disabitua (lascio un po’ per te e tu lasci un po’ per me)
Bel post! Ultimamente si leggono sempre più notizie di gruppi di amici/amiche che comprano casa insieme per creare delle mini comunità e darsi sostegno a vicenda. Ne linko uno ma ne ho letti vari: https://www.vanityfair.it/news/storie-news/2019/07/06/una-villa-per-invecchiare-insieme-la-scelta-di-sette-amiche
Bisognerebbe davvero cominciare a ripensare il nostro stile di vita.
Un'altra iniziativa interessante che va nella stessa direzione (ossia uscire dall'isolamento) è la Festa dei vicini (http://www.comune.torino.it/festadeivicini/)