Non si può più dire niente?
In cui smontiamo il luogo comune espresso dal titolo e cerchiamo di capire insieme come essere meno stronzi, che tutto sommato male non fa.
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Ciao, sono sempre Pietro, non sono ancora stato sostituito da una AI e siamo arrivati alla terza uscita di Patrilineare. Vi sta piacendo? Sì? No? Solo un po’? Fatevi sentire. Pensavo peggio, dati i temi potenzialmente “divisivi”, ma evidentemente vi iscrivete solo voi radical chic buonisti alfieri del GENDER, eh? Dai, fate iscrivere qualche maschio alfa.
Il grado zero della convivenza civile
L’ultima volta1 abbiamo parlato - tra le altre cose - di sessismo, razzismo, abilismo, etc. Abbiamo visto come alcuni stereotipi (ma soprattutto: l’ignoranza e la scarsa propensione a conoscere quello che è diverso da noi) portino alla discriminazione, e come la discriminazione finisca sempre per generare paura e diffidenza, poi odio e violenza. Allora, per una singola persona, come è possibile contrastare questa valanga generata dall’ignoranza?
Risponderò come rispondo sempre a mio figlio: è un bambino, ma non è detto che questa risposta non valga, diciamo così, per grandi e piccini. Ignoranza, odio e violenza si possono contrastare con il rispetto. Gli -ismi sono molti, il rispetto è uno solo. Il rispetto consiste semplicemente nell’accogliere le differenze nella propria visione del mondo.
Nel mondo ci sono donne, gay, persone transgender, persone dal colore della pelle diverso dal mio, disabili, persone sfortunate per nascita, censo, età, religione: io - maschio bianco etero e cisgender - esco dall’illusione che il mondo sia composto al 99% da miei cloni, accolgo queste persone, le vedo, le riconosco, in una parola le rispetto. Non vuol dire che uno deve diventare un santo. Il rispetto è veramente soltanto un grado zero della convivenza civile.
Solo il rispetto e la convinzione che al di là di ogni differenza siamo tutti umani possono combattere gli -ismi. Non dico che con gli altri umani non ci possa essere un conflitto, magari anche acceso. Ma questo conflitto può essere attraversato e risolto senza necessariamente attaccarsi alle caratteristiche di razza, sesso o religione.
Facciamo questo piccolo esercizio: immaginiamo di assistere ad un litigio tra persone che finisce a insulti e parolacce.2 Sono sicuro che nell’esperienza quotidiana di ognuno di noi, nove volte su dieci una donna diventa una putt*na o una tr*ia. Una persona gay (o che appare tale) è un fr*cio, un ricchi*ne o una l*sbica. Una persona di etnia o religione diversa è un n*gro/cin*se/b*ngla/ebr*o/musulm*no di merda. Una persona non conforme ai canoni di bellezza “pubblicitaria” è un c*sso o una c*ssa, un cicci*ne (di merda), una vescica di l*rdo o una busta di p*scio a seconda della regione in cui ti trovi. Un disabile è uno sp*stico, handicapp*to, mongol*ide a seconda del caso. Una persona con scarsa disponibilità economica è un pezz*nte, un anziano è… beh, un v*cchio di merda, e via insultando.
Il problema del linguaggio d’odio (o hate speech, come si dice in inglese) è precisamente questo: insultare le persone appellandosi a una caratteristica intrinseca della persona stessa. La donna viene insultata in quanto donna e soprattutto in quanto troppo o poco disponibile allo sguardo e alle attenzioni del maschio. La persona omosessuale viene insultata in quanto omosessuale, il disabile in quanto disabile… e insomma, hai capito dove voglio andare a parare.
Il conflitto è sano e legittimo, l’insulto è umano e comprensibile, ma c’è modo e modo. Soprattutto, quando litighiamo con un altro essere umano, in generale è il loro comportamento che ci spinge alla rabbia e all’insulto, non quello che li caratterizza come persone. Per una vita sana e rispettosa degli altri, nella vita reale come sui social, sarebbe meglio per tutti limitare il range di insulti a quelli che ben identificano il comportamento di una persona. Sei uno stronzo / una stronza, una testa di cazzo, sei stato/a una merda, un bel vaffanculo e finisce lì.
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I conflitti riguardano i comportamenti, non le persone. Io posso odiare il mio vicino di casa perché ha dei comportamenti che mi fanno infuriare, tipo buttare la spazzatura nei giorni sbagliati, parlare a voce sempre troppo alta o tenere l’ascensore in ostaggio per delle mezze ore, ma odio il suo comportamento, non lui come persona.3
I comportamenti (di tutti, privilegiati e oppressi) possono essere sanzionati o criticati, le persone (tuttə) vanno rispettate.
Ampliare il linguaggio
C’è poi una cosa che a noi maschi etero cis spesso crea problemi: il terribile virus del linguaggio inclusivo. Questo virus lo vedi in atto quando noti uomini di una certa età (diciamo sopra i 45-50 anni) che si fanno venire la bava alla bocca quando sentono dire “buongiorno a tutte e a tutti” o vedono asterischi e schwa in una pagina scritta.
Però diciamo che se ci impegniamo a non usare parole d’odio (e dai, lo abbiamo detto, è il grado zero della convivenza civile, possiamo fare questo sforzo), lo step successivo sarebbe quello di usare un linguaggio ampio.4 Per parlarti di linguaggio ampio faccio un piccolo salto in avanti e ti anticipo che esistono più identità di genere rispetto a quelle che sei abituato a contare sulle dita di una mano che a causa di un incidente sul lavoro ha perso il mignolo, l’anulare e il medio.5
L’italiano è di per sé una lingua abbastanza sessista e binaria dato che - come quasi tutte le lingue romanze - è una lingua che non ha un genere neutro come l’inglese o il tedesco. In inglese, ad esempio, le persone non binarie chiedono di riferirsi a loro con i pronomi they/them (che noi traduciamo impropriamente con “loro”, ma in inglese hanno anche accezioni documentate al singolare6).
Noi non abbiamo pronomi di questo genere, e non abbiamo un modo per evitare il cosiddetto “maschile sovraesteso” (“buongiorno a tutti”, maschile plurale, quando la platea è composta da uomini, donne e probabilmente anche persone transgender). Anche il famigerato “ə” che mi vedi ogni tanto usare (è il simbolo fonetico internazionale schwa, si legge come la “a” dell’inglese “about”) è solo una potenziale soluzione tra le tante per declinare in modo universale il riferimento a un gruppo di persone diverse tra loro per genere, appunto. Una soluzione potenziale, attenzione, con tutti i suoi pregi e difetti (cacofonica da pronunciare e ostica da leggere per le persone dislessiche, ad esempio). Sta al singolo decidere se usarla o meno, non è un “obbligo normativo” del politically correct come sembra pensare molta gente ancora nel 2023.
La realtà e il linguaggio si influenzano a vicenda: se vogliamo accogliere le differenze nella realtà, tanto vale sforzarsi di farlo anche nel linguaggio. Un’altra questione linguistica che a molti maschi (ma stranamente anche a diverse donne) batte in testa è quella dei femminili professionali: Vera Gheno su questo ci ha scritto un intero libro7.
A Torino nel 2016 è diventato di uso comune il termine “sindaca”. Prima, la parola “sindaca” sembrava un pugno nell’occhio (pardon, nell’orecchio) alla maggioranza degli italiani. Pur non condividendo l’orientamento di Chiara Appendino, devo riconoscerle che almeno in cinque anni di mandato ha reso di uso comune questa declinazione, così come tanti altri femminili professionali stanno prendendo piede pur tra schiamazzi e storcere di nasi.
Non mi far cominciare poi sul fronte dei titoli di giornali (tutti o quasi diretti dai gran visir dei MBEC): se c’è da citare un uomo è sempre con nome, cognome e titolo professionale. Se c’è da citare una donna, è sempre solo per nome e magari sottolineando se è una “mamma”. O peggio ancora con la famigerata espressione “una donna” (a caso). Nella migliore delle ipotesi si tira fuori il soprannome finto simpatico tipo “Astrosamantha”.
Queste forse per te saranno sottigliezze, ma se un certo tipo di linguaggio fa stare male qualcuno, perché usarlo? Se possiamo essere accoglienti, perché non farlo? Se cerchiamo di smettere di usare un linguaggio sessista e misogino, perché non includere anche le istanze delle persone transgender? Dall’alto del nostro privilegio maschile abbiamo sempre una certa difficoltà a “vedere” il disagio degli altri, di tutti quelli che non rientrano nella magica “parte alta” della ruota dell’oppressione. E invece osservando meglio si può cogliere un’ottima occasione per diventare un po’ meno stronzi.
Rappresentanza e cancel culture
Anno dopo anno, a piccoli passi, io spero sempre che il rispetto per le differenze guadagni un po’ di punti nella società. Al momento è ancora poco quotato. Ovviamente non tutti sono d’accordo con l’idea di rispetto per come l’ho presentata qualche riga fa, perché non a tutti va a genio l’idea di rinunciare al privilegio - è troppo radicata l’idea di aver diritto a un vantaggio su tutti gli altri.
E se il cambiamento di una società passa soprattutto per i media (film, televisione, intrattenimento), oggi i media sono per l’appunto un campo minato in cui a ogni piccolo passo avanti corrisponde una levata di scudi da parte di quelli che vorrebbero che tutto restasse com'era prima.
Prendi ad esempio il problema della rappresentazione nei film, nelle serie TV, nei libri o nei videogame. Quando ero giovane io, tutti questi prodotti avevano come protagonisti maschi bianchi etero. Una piccola nicchia di prodotti culturali aveva protagoniste donne (ma sempre rigorosamente in ruoli stereotipati) e un’altra nicchia - ancora più piccola - aveva protagonisti di colore.
Oggi invece molti più libri, serie TV o videogame hanno protagoniste femminili forti e assertive (cerca su Google “Test di Bledchel” se vuoi approfondire la questione). La cinematografia nera o quella gay e transgender sono diventate mainstream, non sono più di nicchia, e nei film e nelle serie TV c’è più diversity.8
Tutte le soggettività prima trascurate sono oggi più rappresentate e quindi più viste, più riconosciute come un soggetto sociale legittimato. Non a tutti questo stato di cose va bene. Chi vuole mantenere a tutti i costi il proprio privilegio cerca di delegittimare in ogni modo i soggetti differenti da lui, qualunque soggetto devi dallo standard del maschio bianco etero. E se un soggetto non viene raccontato, non viene visto: viene fatto sparire.
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Allo stesso modo, ma con un occhio al passato, alcuni prodotti culturali oggi vengono contestualizzati nel loro periodo storico per far capire il motivo di rappresentazioni a carattere razzista, sessista, omofobico. Fin da quando mio figlio era piccolo, per esempio, guardare insieme certi film (come Dumbo) o leggere certi libri (come Le avventure di Tom Sawyer) mi creava un certo disagio per la rappresentazione dei personaggi di colore o per l’uso insistito e spensierato della parola “n*gro”.9
Anche in questo caso i campioni del privilegio urlano al tradimento lamentando il fatto che vengano “rovinati” i loro ricordi d’infanzia. La chiamano cancel culture (cultura della cancellazione), ma non c’è nulla che venga in realtà “cancellato”. Semplicemente, per una questione di rispetto, viene evidenziato che certi comportamenti erano normali in una certa epoca e oggi non lo sono più.
Insomma: si devono studiare le persone per conoscerle, occorre avere interesse per ogni forma in cui l’umanità si presenta, accoglierla e rispettarla, anche in occasioni di conflitto10. E questo non soltanto per motivi che riguardano l’altro, ma anche e soprattutto per motivi che riguardano noi stessi: entrare in una relazione di amicizia, di affetto, di confronto con molte persone diverse da noi è il fondamento per una vera e solida costruzione del sé. Non si diventa veri uomini se non si riconosce il privilegio e non si accolgono tutte le differenze.
E comunque non è vero che non si è più liberi di dire niente: si può dire quello che si vuole. Basta prendersene la responsabilità. Se ti lamenti pubblicamente di non poterti comportare da stronzo, devi poi accettare di essere universalmente riconosciuto come tale.
Ma che bella puntata! E in coda hai fatto venire voglia anche a me di rivedere "Talk Radio".