Depressione al maschile: la stanchezza di essere forti
È solo un po' di stress. Basta che dormo un po' di più e risolvo. Adesso non ho voglia di vedere nessuno, poi passa. E se non passa?
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Ciao! E allora come va, come va questo pride month? Qui da me a Torino il bagno di folla è stato come ogni anno rigenerante. Rigenerante soprattutto nei confronti della fiducia nell’umanità che finora tra guerre, carestie, decreti sicurezza, dazi e sti cazzi era scesa ai minimi storici. Quando vado al Pride vedo che non sono l’unico maschio etero cisgender1 che ha certi valori in testa, e mi rassereno. Proprio perché mi sono un po’ rasserenato, ti propongo un tema di cui solitamente è un po’ difficile parlare: la depressione maschile. Non è una roba pesantissima, te lo prometto. Si parla anche di come uscirne, che tu sia giovanissimo o un venerabile anziano come me. Ci metto anche del mio e ti racconto qualcosa che mi è successo, vedi tu se ti può servire.
La depressione che non si vede
Non sempre la tristezza si presenta con le lacrime. A volte prende la forma di uno sguardo assente, di uno scatto d’ira immotivato, di un bicchiere di troppo.
Magari non riesci a dormire, ti sbatti troppo sul lavoro o (dio non voglia) non riesci ad avere un’erezione. Magari sei depresso e non lo sai.
Terrence Real, psicoterapeuta statunitense2, è stato tra i primi a definire ciò che chiama “depressione maschile nascosta” (covert depression). Secondo Real, molti uomini depressi non sembrano tristi, ma esasperati. Non si lamentano, ma si arrabbiano. Non piangono, ma si isolano o si anestetizzano con lavoro, pornografia, sostanze, sport estremi. È una forma di sofferenza sotterranea, spesso invisibile, che si sviluppa in un contesto patriarcale dove agli uomini viene insegnato fin da piccoli a non mostrare emozioni, a “tenere duro”, a cavarsela da soli. Questa depressione non è meno grave di quella classica, ma è più difficile da riconoscere, anche da chi ne soffre. È come se noi maschi avessimo imparato, per sopravvivere, a ignorare i segnali del nostro disagio fino al punto di rottura.
Intanto, i sintomi sono abbastanza diversi e “atipici” rispetto alla comune idea di depressione. Ci sono almeno sette segnali che vale la pena osservare se vogliamo esaminare la depressione maschile:
Irritabilità e rabbia: scoppi d’ira frequenti, rabbia repressa, senso costante di frustrazione.
Isolamento sociale: tendenza ad allontanarsi da amici e familiari.
Abuso di sostanze: alcol, droghe, ma anche dipendenza da pornografia, gaming, sport estremi.
Eccesso di lavoro o iperattività: il lavoro come anestetico.
Disturbi del sonno: insonnia o ipersonnia.
Disfunzioni sessuali: calo del desiderio o difficoltà a mantenere relazioni intime.
Pensieri autodistruttivi: anche se non apertamente suicidari3, come guida pericolosa o ricerca deliberata del rischio.
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E poi c’è il discorso dell’autolesionismo.4 Bisogna far luce su un altro aspetto spesso ignorato: anche i maschi si feriscono, ma in modo diverso. Non tagliandosi come molte ragazze, ma ad esempio colpendosi da soli, sfogandosi con atti violenti (contro oggetti, muri, sé stessi), o cercando situazioni dove possano farsi del male "per caso". Il dolore, insomma, viene tradotto in aggressività anziché in pianto.
Chiedere aiuto, manco a dirlo, viene ancora percepito da molti uomini come una forma di debolezza. Ma c’è un altro problema meno discusso: anche chi la depressione dovrebbe saperla riconoscere, a volte non la vede. Diversi studi dimostrano che anche i professionisti della salute mentale hanno bias impliciti che li portano a diagnosticare meno spesso la depressione negli uomini, soprattutto se si manifesta con rabbia o comportamenti antisociali. Il modello clinico tradizionale è costruito su manifestazioni femminili della depressione (tristezza, pianto, apatia), e questo lascia molti uomini senza una diagnosi chiara, senza una terapia e spesso senza una via d’uscita. E qui c’è un paradosso che mi colpisce in faccia ogni volta.
Da un lato, la medicina tradizionale ha storicamente preso il corpo maschile come riferimento universale per la diagnostica fisica: i sintomi dell'infarto, per esempio, sono descritti secondo come si manifestano negli uomini (dolore al petto, irradiazione al braccio sinistro), mentre nelle donne spesso i segnali sono diversi (nausea, affaticamento, dolore alla schiena o alla mandibola) e per questo meno riconosciuti, portando a ritardi nella diagnosi e nei soccorsi. Dall’altro lato, la salute mentale è stata invece costruita attorno a un paradigma femminile di espressione emotiva: tristezza, pianto, verbalizzazione del disagio. Quindi gli uomini che soffrono ma lo fanno attraverso rabbia, ritiro sociale o dipendenze non rientrano nei parametri clinici canonici e rischiano di non essere riconosciuti come pazienti depressi.
È quasi come se la società ci dicesse che gli uomini sono “corpi che agiscono” e le donne “menti che sentono.” Questo dualismo intrinsecamente sessista non serve a nessuno. Disumanizza gli uomini, riducendoli a gusci silenziosi e iper-performanti. E disincarna le donne, ignorando la complessità e l’alterità fisica dei loro corpi, soprattutto in medicina.
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Ma torniamo alla depressione maschile, perché devi sapere che inizia spesso molto prima di quanto pensiamo. Negli adolescenti maschi, il disagio si esprime raramente come tristezza esplicita. Più spesso si manifesta con comportamenti oppositivi, bullismo, aggressività, uso precoce di sostanze, silenzio. La psicologa statunitense Niobe Way, in vent’anni di ricerca sul campo, ha documentato come i maschi, attorno alla pubertà, perdano progressivamente la capacità di parlare dei propri sentimenti e di coltivare amicizie intime. In libri come Deep Secrets5, Way mostra come i ragazzi a 11-12 anni abbiano ancora legami profondi con altri maschi, che però si dissolvono quando la cultura maschile insegna loro che la vulnerabilità è “da femmine”.6
Come prevenire il tracollo? Io risposte non ne ho, ma mi porto dietro una sorta di kit minimo di sopravvivenza emotiva che cerco di fornire all’adolescente maschio di casa… e bada bene che non sempre riesco bene nemmeno in questo: uno spazio sicuro per parlare con adulti non giudicanti (difficilissimo se poi la persona in questione è tuo figlio, eh). Sport non competitivi, dove il corpo sia uno strumento espressivo, non solo performativo. Un’educazione affettiva che normalizzi il pianto, l’empatia, la delicatezza, la cura. Modelli maschili adulti che sappiano dire “sto male” e non solo “sto zitto e vado avanti” (questo indubbiamente mi riesce sempre molto bene).
E se sei un maschio adulto, come me? Beh… a volte possiamo ritrovarci depressi senza saperlo. Magari sei diventato padre e non riesci a connetterti con ə figlə per una serie di condizionamenti che ti porti dietro. Magari hai perso un lavoro, un amore, un ruolo sociale. Oppure “hai tutto”, ma senti un vuoto che non riesci a colmare. La depressione in età adulta è spesso legata a un’assenza di reti relazionali profonde, all’impossibilità di mostrare vulnerabilità anche tra amici, al senso di inadeguatezza che si prova quando la mascolinità performativa entra in crisi. Ecco: se hai riconosciuto qualcosa di te in queste righe, il mio consiglio è di non ignorarlo. La depressione non è una debolezza del carattere, ma una condizione che può essere affrontata e curata. La psicoterapia non è solo per chi “sta male male male”. È per chi ha bisogno di trovare parole, strumenti, una via. Non è necessario toccare il fondo per chiedere aiuto. Chiamare uno psicologo, parlarne con il proprio medico, confidarsi con un amico vero: sono gesti coraggiosi, non codardi. Poi c’è anche questa cosa, che ci sta, di avere timore di iniziare un percorso che non riesci a prevedere dove ti porterà: ma se hai paura della terapia, dillo in terapia. È lì per questo.
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Io stesso, qualche anno fa, ho iniziato un percorso di terapia in un momento in cui ho sentito che forse non sarei riuscito a reggere il peso dei vari componenti della mia vita. Mio padre è morto nel 2006 e da allora, per quindici anni, ho dovuto prendermi cura di mia madre (che ha sempre avuto una condizione psichiatrica molto difficile) in aggiunta alle questioni familiari mie. Nel 2013 è arrivato mio figlio, ma con il suo ingresso alla scuola materna mia madre è peggiorata e il mondo ha iniziato a crollarmi addosso: i sintomi? Difficoltà a respirare bene, crisi di panico, narcolessia (cioè, mi addormentavo ovunque7), sovracompensazione a lavoro, frustrazione per il fatto che “non potevo tenere tutto sotto controllo”.8 È stata una delle cose più difficili che abbia mai fatto: guardarti dentro, senza sconti, è un vero e proprio turno di lavoro, per il quale poi non è che hai chissà quale formazione. Eppure poi si comincia a stare meglio, un passo alla volta. Dopo un paio d’anni ho chiuso, ma non escluderei di ricominciare.
In conclusione, guarda, io lo dico perché ti voglio bene, ti vedo e ti capisco: fatti vedere. Anche se pensi che non sia nulla. Anche se non sai da dove partire. Anche se hai paura.
Linkando qua e là
Articoli, post, notizie che mi hanno fatto pensare “aspetta che me lo segno per Patrilineare”… E se le notizie non sono qui, non disperare: a volte ce le scambiamo sulla chat di Patrilineare!
Illustrazione di Michela Negri @meriodoc dalla sua pagina Ko-Fi
Nel mese del Pride 2025 e dopo sei mesi di amministrazione Trump, l’istituto Pew Research Center ha pubblicato una ricerca sulle esperienze attuali della comunità LGBTQIA+ statunitense.
Nicoletta Cottone su Il Sole 24 Ore racconta la proposta di legge contro il body shaming firmata da Martina Semenzato, attuale presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. C’è nell’aria anche l’istituzione di una giornata nazionale contro il body shaming (il 16 maggio): Vedremo quanto servirà.
“Il governo francese ha fatto arrabbiare Pornhub quindi Pornhub ha tolto il porno ai francesi” è il titolo di un pezzo su Rivista Studio che mi ha fatto molto ridere (il titolo, non il pezzo). La spiega bene, come sempre, anche il Post: Allo - la società che controlla Pornhub, RedTube e YouPorn - sta semplicemente facendo lobbying.
L’eco del caso di Martina Carbonaro giustamente non si spegne e, partendo dalle radici della relazione tossica con Alessio Tucci e da una generalizzata sessualizzazione delle bambine nella nostra società (cosa che non avviene ad esempio con i maschi di dodici anni), mi piace linkarti un post di Milo Cotogno Serraglia che spiega molto chiaramente l’età del consenso nell’ordinamento italiano. Giusto per ricordarselo.
Sembra che i padri della Gen Z si rompano le palle a leggere cose ai propri figli, o almeno così sostiene il Guardian. Allora, se proprio sei un babbo giovane e non hai tempo e voglia, ti suggerisco questa playlist su YouTube gestita da una persona che forse conosci…
Dopo Svezia, Danimarca, Finlandia e Spagna, anche la Norvegia inserisce il concetto di consenso nella legge sulla violenza sessuale.
Non so se ti ho mai parlato di Michela Negri aka Meriodoc (la trovi su Instagram): le sue illustrazioni dedicate al corpo umano, alla fisiologia della sessualità, all’identità di genere, a sesso e disabilità, mestruazioni, contraccezione, STD e riproduzione sono una risorsa preziosissima per insegnanti e educatorə sessualə: perché limitarsi agli schemini scientifici quando ci sono illustrazioni così belle ad hoc? Ti linko il suo negozio su Ko-Fi.
Prendendo spunto dalla presenza del gruppo femminista Némésis al Salone del Libro di Torino, Silvia Grasso su Wired si interroga sulla possibilità stessa dell’esistenza di un “femminismo di destra”, aka il femonazionalismo.
A Torino come ti dicevo il Pride è già arrivato, ma il Pride month (giugno) è ancora lungo, e magari qui puoi trovare indicazioni sugli eventi della tua città.
Eugenia Nicolosi su Al Femminile analizza l’interessante parallelismo tra mascolinità tossica e crisi climatica. I comportamenti più stereotipati emettono più gas serra, pensa te!
“Caccia all’omo” di Simone Alliva è un libro fondamentale per capire l’Italia omotransfobica. Su Domani l’autore ne parla in occasione di una nuova edizione aggiornata.
Caterina De Biasio su Rivista Studio racconta Sirens, la nuova serie di Netflix con protagoniste Julianne Moore e Meghann Fahy che rappresenta le dinamiche di potere e sopraffazione tra donne, mentre il vero nemico resta nell’ombra.
Da ultimo, ma non da meno, ti segnalo l’ultimo episodio di Amare Parole, il podcast di Vera Gheno sul Post, dedicato stavolta ad un intreccio tra parole della disabilità e hate speech: si prende spunto dal ritorno in auge del termine “retarded” (ritardato) vista come una grande vittoria della libertà di parola. Il podcast è riservato agli abbonati, potrebbe essere un’ottima occasione per sottoscrivere un abbonamento.
Cosa mi gira in testa?
Negli ultimi tempi, oltre a fare proselitismo per Young Hearts, il film di cui ti ho parlato l’ultima volta, nella speranza che lo facciano uscire anche in Italia, ho visto solo cose cupe e angosciose - passo questi periodi qua che non so perché ho bisogno di darmi delle metaforiche bastonate sulle palle. Allora come antidoto mi sono proposto (e propongo anche a te) di vedere Il Baracchino su Prime Video, una serie animata inaspettatamente bella prodotta da Lucky Red. Il Baracchino del titolo è un locale di stand-up comedy un po’ sfigato attorno al quale gravitano dei comici altrettanto sfigati ed improbabili (ci sono tutti: Luca Ravenna, Edoardo Ferrario, Pietro Sermonti, Stefano Rapone, Daniele Tinti, Michela Giraud, Yoko Yamada, Frank Matano) tenuti a bada da Pilar Fogliati nel ruolo della aspirante direttrice artistica e da Lillo nel ruolo del disilluso proprietario del locale.
Il cast di Il baracchino © Lucky Red / Prime Video
Poteva sembrare una stramba riedizione di LOL Chi ride è fuori9 e invece è una serie interessante, sfaccettata, libera ma con una struttura forte e molto riconoscibile e ben caratterizzata. Guardala, sono sei episodi da una ventina di minuti l’uno.
L’altra cosa che mi gira in testa in questi pazzi giorni te la dico con un pizzico di vergogna da Gen-Xer che ha fatto il salto della quaglia e in un certo senso “ha ceduto” alle sirene della modernità. Ho iniziato a montare dei piccolissimi video su TikTok, una sorta di “Patrilineare in pillole”. Ci metto su pezzetti di robe che magari ho già detto qua oppure cose nuove che nella newsletter non ho mai scritto. Perché TikTok? È presto detto: volevo uscire dalla mia comfort zone e mettermi in un contesto dove non conosco nessuno, non conosco il mezzo e dove potevo adottare un approccio completamente “vergine”. Non ultimo, so benissimo che l’anagrafica qui su Substack è abbastanza attestata sul segmento 35-55 anni, ma ci sono alcuni contenuti a cui tengo che ho proprio piacere che arrivino a un pubblico MOLTO più giovane (facciamo pure 15-25). Perciò niente, se ti capita, io su TikTok sono @pietroizzo70. Un account dormiente dove finora più che altro mio figlio si inventava improbabili italian brainrot e che adesso ho risvegliato nel nome della lotta al patriarcato. E dove dopo un paio di video postati hanno subito cominciato ad arrivare i commenti beceri da parte del paese reale… ma perché cazzo non me ne sto nella mia bolla, vabbè.
Raccomandazioni
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Per ora ti saluto, non andarmi in depressione o se ci sei già dentro chiedi aiuto. Io mi sa che dopo questa tornata referendaria vado a cercarmi un terapeuta. Uno bravo, però.
Grazie Pietro. Mi ritrovo in quelle parole e condividerò un'esperienza per dar seguito al tuo articolo: mio padre faceva lo stesso, nell'incapacità di affrontare momenti di stress (come dialoghi con la sua ex-compagna, mia madre); vengo da un contesto di famiglia del Sud, a sua volta lui da una famiglia di 3 fratelli e una madre dura e severa: l'affetto non hai mai varcato la soglia della sfera-familiare, intensificando comportamenti machisti, impregnati di cultura maschio-feudo-centrica che caratterizava ancora il Sud (mio padre é del '59) ed una realtà provinciale oscura (RC, nido di famiglie 'ndranghetiste)
Grazie al pensiero-critico femminile della mia compagna, ho rivisto quei comportamenti, quel silenziarsi o addiritura eludere fisicamente il dialogo, ed ho deciso di fare una terapia occasionale, che potesse sviluppare non un metodo mediatore (non solo perlomeno) ma la voglia di reagire comunicativamente, per togliere quei bias che pilotano la tua mente e trasformare un migliore "sé".
Parlane sempre, é il solo modo di poner il tema centrale nella vita di tuttə le persone, affinché possa cambiare.
Abbraccio forte 🫂
Grazie davvero: questo è un articolo che avrei voluto leggere diversi anni fa, mi sarebbe servito tantissimo.
Quello che mi fa paura è che molti dei sintomi sono davvero indistinguibili dallo stress (che comunque non è una cosa da sottovalutare, anzi): ed il rischio di accorgersi in ritardo della situazione in cui ci si trova è alto...
E visto che hai parlato anche di Pride, qui a Genova la prima giornata del Pride Village ha ospitato un bellissimo talk curato da Matteo Botto e Eugenia Nicolosi, "Manosphere: nella tana dei bro", incentrato su incel, redpillati e simili. L'han mandato in diretta streaming, ma non so se abbiano intenzione di pubblicarlo su youtube: spero davvero di si.