Giornalismo e patriarcato: la cambiamo questa narrazione?
Nonostante innumerevoli corsi di deontologia, il modo in cui i media parlano di violenza di genere, femminicidio, omofobia è sempre lo stesso: patriarcale.
Photo by Rawpixel - Freepik.com
Ciao, inizia a far caldo. Con il caldo a me sale l’irritazione. E una delle cose che mi irrita maggiormente è il non rispetto delle regole. Per esempio, le regole di deontologia professionale, che per i giornalisti - categoria alla quale a volte mi pregio, altre volte un po’ mi vergogno di appartenere - sono molto chiare ma evidentemente non sempre così stringenti.
Ti sarà sicuramente capitato di notare, ad esempio, come vengono trattati sui media italiani i casi di violenza di genere, di femminicidio, di omolesbobitransfobia. Se non lo hai notato tu, magari te lo ha fatto notare una donna a caso, o una persona LGBTQIA+. Oggi te lo voglio far notare io.1
Il giornalismo italiano è lo specchio della nostra società, nel bene e nel male: ha il potere di influenzare e modellare la percezione pubblica e negli anni si è dotato di strumenti per non cadere in “trappole comunicative” e malpractice di vario tipo. Eppure, quando si tratta di violenza di genere e femminicidi, spesso il giornalismo usa narrazioni patriarcali e contribuisce a diffondere una cultura dello stupro.2 Se fai caso soprattutto ai titoli, ma anche al testo degli articoli, è evidente come spesso si giustifichino gli aggressori, presentandoli come vittime delle circostanze o dell'amore non corrisposto. Frasi come "l'ha uccisa per amore" o "non accettava la separazione" minimizzano la gravità della violenza, distorcendo la realtà dei fatti.
Questi racconti non sono solo problematici per le loro implicazioni immediate, ma rafforzano anche un sistema di credenze che vede la violenza contro le donne come una risposta quasi naturale a certi stimoli emotivi maschili. Se si sposta la colpa dalla violenza maschile alla vittima si contribuisce alla normalizzazione della violenza di genere, punto e basta. La frase "lei lo aveva lasciato" suggerisce implicitamente che l'atto di lasciare un partner possa giustificare una reazione violenta, ignorando completamente la responsabilità dell'aggressore. Questo accade perché la narrazione di questi fatti è in genere presentata dal punto di vista maschile.
Pensa poi a come viene descritta la vittima: spesso viene chiamata solo per nome, quindi infantilizzata. Ci si sofferma su cosa ha fatto / come si è comportata / cosa indossava (evidentemente per scatenare una tale reazione) mettendo in marcia la macchina del victim blaming e arrivando infine a usare violenza, stavolta psicologica, una seconda volta (la cosiddetta vittimizzazione secondaria).3
La Carta di Treviso, la Carta di Roma e il Codice Deontologico dei Giornalisti4 sono strumenti fondamentali per promuovere un'informazione etica e responsabile. Ma è sotto gli occhi di tutti che spesso queste linee guida vengono ignorate o applicate superficialmente. Articoli e titoli sensazionalistici che alimentano una narrazione patriarcale sono all’ordine del giorno, e purtroppo non solo sui media più di nicchia (diciamo così), ma anche su testate apparentemente insospettabili.
Photo by Rawpixel - Freepik.com
I documenti che ti ho citato forniscono linee guida cruciali, in particolare quando si tratta di temi delicati come la violenza di genere, i femminicidi e la discriminazione basata su orientamento sessuale e identità di genere. La Carta di Treviso, ad esempio, sottolinea l'importanza di rispettare la dignità delle persone e di evitare la spettacolarizzazione delle notizie. Una buona pratica applicata ai casi di violenza di genere potrebbe essere l'evitare di pubblicare dettagli morbosi che possano aumentare il dolore delle famiglie delle vittime o deə sopravvissutə. Per esempio, invece di descrivere in modo dettagliato le modalità del crimine, un giornalista potrebbe concentrarsi sulle conseguenze e sulle misure di prevenzione.
La Carta di Roma enfatizza la necessità di un'informazione non discriminatoria, che eviti termini e narrazioni che possano stigmatizzare le persone. Allora, nei casi di femminicidio o di violenza contro persone LGBTQIA+, è fondamentale non utilizzare un linguaggio che possa insinuare che la vittima sia in qualche modo responsabile della violenza subita. Frasi come "l'ha uccisa per gelosia" o "non sopportava che fosse lesbica" spostano l'attenzione dall'atto criminale alle emozioni dell'aggressore, quasi giustificandole. E poi comunque c’è il Testo Unico dei doveri del giornalista, che all’articolo 5bis recita: “Il giornalista… presta attenzione a evitare stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della persona; si attiene a un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole. Si attiene all’essenzialità della notizia e alla continenza. Presta attenzione a non alimentare la spettacolarizzazione della violenza. Non usa espressioni, termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto commesso”… Insomma, ci siamo capiti.
Per cambiare la narrazione sulla violenza di genere, è fondamentale che come giornalisti si adotti un approccio più consapevole e rispettoso. È necessario utilizzare un linguaggio che non minimizzi la gravità dei crimini e che non colpevolizzi le vittime. Soprattutto, bisogna dare maggiore spazio al punto di vista delle vittime, concentrandosi sulle loro vite e sulle conseguenze della violenza, piuttosto che sulle presunte motivazioni degli aggressori. Questo cambiamento richiede un impegno collettivo da parte dei media, delle istituzioni e… della società nel suo complesso.
Photo by Freepik - Freepik.com
Se andiamo a cercare le ragioni dietro la persistenza di queste narrazioni patriarcali nei media, salta subito all’occhio che una parte significativa del problema è legata al modello economico di gran parte del giornalismo odierno. In un'epoca dominata dai ricavi pubblicitari e dalla competizione per l'attenzione, titoli sensazionalistici e articoli drammatizzati attraggono più clic e, di conseguenza, più entrate pubblicitarie. Ovvio quindi che giornalisti e redattori preferiscano storie che possano essere facilmente consumate e condivise, magari a scapito dell'accuratezza e del rispetto per le vittime. Il clickbait sui social, o sulla “colonnina morbosa”5 di un sito di news è l’equivalente dei vecchi titoli “gridati” in giallo e rosso di quei settimanali come Cronaca Vera: persiste la convinzione che solleticare le pulsioni più nascoste dei lettori sia l’unico modo di sopravvivere come media company.
Cosa si può fare, quindi, per contrastare questa tendenza? La soluzione è semplice a parole ma purtroppo complicata nei fatti. Ovviamente è necessario un ripensamento del modello economico del giornalismo. La promozione di un giornalismo di qualità richiede investimenti in formazione e maggiori risorse per i giornalisti. Su questo abbiamo molte buone pratiche anche in Italia, dalle più note come Il Post a quelle meno note ma non meno valide. E la formazione dei giornalisti è capillare (per chi ha voglia di seguirla con attenzione).
Ma - e qui sta il punto dolente - anche il pubblico deve essere educato a riconoscere e sostenere le pratiche giornalistiche responsabili. Solo attraverso un cambiamento culturale e strutturale possiamo sperare di vedere una narrazione più giusta e rispettosa della violenza di genere nei media italiani. Sappiamo bene che il problema è sistemico, e non basta un’avanguardia di giornalisti formati e consapevoli per cambiare le cose: per ogni giornalista attento ci sono dieci redattori, titolisti o addetti stampa imbevuti di patriarcato (penso soprattutto agli uffici stampa di polizia, carabinieri, tribunali e simili).
Cambio cappello e da giornalista divento lettore: se anche come lettori assumessimo un ruolo attivo e chiedessimo un'informazione più equa e rispettosa, forse potremmo influenzare i media a cambiare le loro pratiche e a promuovere una narrazione diversa. Proviamoci, che dici?
Linkando qua e là
Articoli, post, notizie che mi hanno fatto pensare “aspetta che me lo segno per Patrilineare”…
Captain Marvel è più femminista di Wonder Woman? - Photo © Marvel Studios
Maïa Mazaurette6 ha scritto su Le Monde un pezzo molto condivisibile sul fatto che - forse - “pretendiamo troppo dal sesso”. Leggi la traduzione su Internazionale e dimmi se non è così: il sesso è imperfetto, e resta il suo bello.
Brunella Gasperini su Repubblica ha scritto un pezzo bello e doloroso sui bambini testimoni di violenza domestica.
Dal blog Alley Oop del Sole24Ore, una breve ma incisiva analisi dei dati sulla crescita di episodi di omolesbobitransfobia in Italia. D’altra parte, come annota Elisabetta Moro su Cosmopolitan, sui diritti LGBTQIA+ ormai siamo messi peggio che in Ungheria.
Mi è piaciuto moltissimo questo lungo articolo di Alessandra Vescio su ValigiaBlu a proposito delle presunte differenze tra il cervello maschile e quello femminile. Decenni di ricerca per capire le “differenze” quando in realtà il punto sarebbe curarci tuttə meglio.
Dal Journal of Gender Studies, un’analisi curiosa della rappresentazione di due supereroine - Wonder Woman e Captain Marvel - attraverso le lenti del femminismo contemporaneo.
Mi imbarazza un po’ segnalare un prodotto del Ministero degli Interni, ma insomma, ecco qua: il paper su “I giovani e la violenza di genere” pone comunque alcuni interessanti spunti di riflessione.7
Diversità di genere e social: uno studio dell'American Psychological Association riflette su come la diffusione dei social media abbia “aiutato” la riflessione sull’identità di genere a diventare mainstream.
Il 14 giugno entra in vigore la nuova legge contro il bullismo fortemente voluta da AVS. Speriamo bene. Nel frattempo, a Cesena…
Che giugno è il mese del Pride, dovresti già saperlo. Se no ci pensa Repubblica a ricordartelo con il ciclo di storie "Pride of me".
Maschi veri sarà come Machos Alfa? A me pare tantissimo un remake, ma da questa anteprima di GQ non sembrerebbe. Staremo a vedere.
Il barometro dell'odio di Amnesty International ci dice che l'incidenza di hate speech nei media è triplicata nel 2023 rispetto agli anni precedenti. In particolare il dissenso e l’attivismo vengono delegittimati a partire dai telegiornali.
Sessualità a scuola: una bella intervista a Monica Castagnetti del Gruppo CRC (gruppo di lavoro sulla Comprehensive Sexuality Education coordinato da Save the Children Italia) su Vita.
Nel convegno del 30 maggio “United around gender equality” è stata presentata la strategia per l'uguaglianza di genere per il periodo 2024-2029 del Consiglio d'Europa, a 10 anni dalla Convenzione di Istanbul.
La sex/ed che vorrei
Stavolta entriamo nel vivo delle relazioni, con una domanda che attanaglia molti giovani maschi più o meno intraprendenti: come iniziare una relazione? Non stare a sentire gli artisti del rimorchio, ci sono solo due regole di base. Eccole.
Ep. 6 - Relazioni, desiderio e rifiuto
Metto le mani avanti: chi sono io per parlare di relazioni di coppia? Sono e sono stato un partner in alcune (poche) relazioni significative, non è che abbia tutta questa esperienza. Probabilmente ricaveresti consigli migliori sulle relazioni da qualche canzone pop, da una serie TV o dalle migliaia di romanzi scritti in merito nei secoli. Io, in tutta sincerità, posso mettere giù due concetti in croce, che però a mio avviso sono veramente le basi. Sono purtroppo basi che molto spesso sia i giovani che gli adulti tendono un po’ a dimenticare o a dare per scontate, incappando in problemi non da poco.
Photo by Freepik - Freepik.com
Da piccoli, si sa, basta un bigliettino “Ti vuoi mettere con me? SI / NO”, un bacetto e via, siamo fidanzati. Ovviamente basta crescere di qualche anno ed è chiaro che le cose sono molto più complicate, sia che si voglia entrare in una relazione sentimentale con una ragazza, con un ragazzo o con una persona transgender o non binaria. Possiamo dividere i problemi relativi alle relazioni in due grandi filoni: “Come faccio a entrare in una relazione?” e “Come gestisco la mia relazione?”.
La prima, in particolare, è una domanda chiave che tutti ci siamo posti a partire proprio dalla nostra adolescenza. Magari abbiamo un’immagine di noi stessi non conforme a quella del maschio alfa, e quindi siamo convinti di valere poco. Magari (garantito) abbiamo difficoltà ad esprimere le nostre emozioni, e questo non è un buon inizio per approcciarsi ad un potenziale partner. Magari abbiamo una bassa autostima, ci sentiamo brutti, nerd, sfigati. Ma quasi tutti, all’apparire dei primi innamoramenti e al risvegliarsi del desiderio, abbiamo una cieca fiducia nel mitico “Libro delle Regole e dei Segnali”8.
Il “Libro delle Regole e dei Segnali” non è veramente un libro (sarebbe fantastico, ma no). Diciamo che è più un insieme compatto di indicazioni, prescrizioni e interpretazioni relative alla “conquista amorosa” tramandato oralmente di maschio in maschio da circa novecento anni e che al di là dei doverosi aggiornamenti dovuti al passare dei secoli e delle mode è rimasto sostanzialmente sempre lo stesso. E ovviamente si tratta di un mucchio di stronzate senza alcun senso. Attenzione: non sono solo i giovani che cadono in questa trappola, ma anche molti maschi adulti, che magari pagano centinaia di euro per andare a lezione da sedicenti “maghi del rimorchio” che ti spiegano come far cadere una persona ai tuoi piedi in dieci semplici mosse.
Non esistono mosse. Non esistono regole e soprattutto non esistono i famosi “segnali”. Vado a farti un esempio di alcuni tipici segnali che nella tradizione maschile significano “sono disponibile”. Quando una ragazza ti mette una mano sul braccio, vuol dire “voglio scopare”. Quando si passa la lingua sulle labbra mentre parlate, vuol dire “voglio scopare tantissimo”. Quando si passa la mano tra i capelli e li sposta indietro, vuol dire “sono disponibile a fare tutto quello che vuoi, non devi nemmeno chiedere”.9
Ora, per carità, è chiaro che toccare il braccio di un’altra persona, specialmente per la prima volta, è un segnale di una certa propensione all’intimità (oppure il segnale che si è una persona molto maleducata, o semplicemente di un’altra cultura in cui gli spazi personali sono gestiti in modo differente). Questo però non vuol dire automaticamente “sono sessualmente disponibile”. Questo è un salto di significato tipico del “Libro delle Regole e dei Segnali” ed è un salto di significato che causa sempre, sempre una rovinosa caduta. Anche il gesto della lingua, la mano tra i capelli, sono per lo più movimenti involontari e normali (magari causati da labbra secche, capelli in disordine) vedendo i quali il giovane maschio, abituato a sessualizzare ogni aspetto del corpo femminile, si figura chissà quali messaggi altamente erotici.
Ripeto: non voglio sconfessare decenni di prossemica (la validissima scienza che studia lo spazio e le distanze tra persone come forma di comunicazione), ma non esiste un’equivalenza esatta tra determinati gesti e la disponibilità sessuale di una persona. Detto ciò, al giovane maschio rimasto senza riferimenti certi che voglia approcciare unə potenziale partner, cosa si può consigliare? Bisogna pure, in qualche modo, “provarci”.
Entrare in connessione, sia pure per un attimo, con un altro essere umano è la cosa più difficile del mondo, questo è certo. Ed è chiaro che in queste cose bisogna anche prendere il coraggio a quattro mani e buttarsi. Con due regole precise bene in mente, però. La prima è quella di tenere sempre presente che stiamo interagendo con un’altra persona che a sua volta avrà la sua risposta emozionale, il suo sguardo, le sue preferenze romantiche o sessuali... il suo desiderio in una parola. E siccome non è detto che il desiderio dell’altra persona incontri il nostro desiderio, la seconda regola è quella di entrare fin da subito nell’ottica di accettare la possibilità di un rifiuto.
Photo by Freepik - Freepik.com
Queste due regole semplicissime (chiamiamole la regola dei soggetti desideranti e la regola del no) ai maschi di norma non le spiega nessuno. Eppure sono le uniche due regole che veramente vanno seguite nel tentativo di avviare un dialogo sentimentale. Disobbedire alla prima regola vuol dire “provarci”, sempre e comunque, solo perché siamo maschi e possiamo farlo. Questo ha molto a che fare con il privilegio del maschio nella nostra società. Diciamo che ti piace una persona, e hai deciso di comunicarglielo. Cominci a cercare di stare sempre vicino a questa persona, magari mandi segnali e ammiccamenti (che vogliono dire qualcosa per te ma che restano ambigui se non ridicoli per gli altri), insomma, “ci provi”.
Magari ti va bene, perché hai la fortuna di trovare qualcunə il cui desiderio si incontra con il tuo. Ma di base, con il tuo “provarci”, stai oggettivando l’altra persona. Oggettivarla vuol dire non riconoscerla come persona, ma soltanto come un qualcosa che tu vuoi possedere, perché ti piace, perché ne sei invaghito. Anche se sei gentile, anche se non ti sembra di essere pesante. Anche se segui tutti i dettami dell’amor cortese: a te sembrerà di essere un gran gentiluomo, ma sappi che anche la cavalleria è solo un altro modo (più arcaico) di oggettivare una persona. Oggettivare è il contrario di amare. Non si può entrare in relazione con un oggetto, si può solo possederlo. Capisci quindi che - nel triste percorso codificato del maschio nella società patriarcale - un partner non si ama: lo si possiede, è oggetto di vanto, lo si prende e lo si getta via a piacere.
Peraltro, andiamo ancora più a fondo della questione: provarci in un contesto in cui l’altra persona sta facendo qualcos’altro, fosse anche solo leggere un libro o ascoltare musica negli auricolari per i fatti suoi, e quindi imporre la tua presenza in un momento in cui questa non è minimamente prevista né potrebbe essere apprezzata o valutata nel giusto contesto, è una molestia. Magari non è ancora una molestia sessuale, ma potrebbe diventarlo. Prima entri nell’ottica di riconoscere che la persona con cui vuoi entrare in relazione è un soggetto desiderante autonomo, che ha voce quanto te nella dinamica degli scambi di comunicazione, meglio è.
Un soggetto desiderante autonomo magari non desidera te. Desidera il tuo compagno di classe. O desidera una ragazza. O non desidera proprio nessuno. O ancora, desidera entrare con te in una relazione di amicizia, non di amore o di sesso (la cosiddetta “friendzone”). E questo ci porta alla seconda regola: è molto, molto probabile che al tuo “provarci” venga opposto un rifiuto, più o meno cortese. E il maschio ha un problema col rifiuto. Abituato fin da piccolo ad ottenere quello che vuole attraverso dimostrazioni di forza o di abilità, in una sorta di continuo agonismo per cui bisogna sempre dimostrare di essere vincenti, il maschio medio non tollera un “no” come risposta. Non sto dicendo che non sia un’esperienza frustrante vedersi rifiutati. Ma è comunque un’esperienza: la mettiamo da parte, cerchiamo di capire come interpretarla, e passiamo avanti. Capita a tutti, bisogna metterlo in conto.
Nella migliore delle ipotesi il rifiuto viene completamente ignorato, nell’ottica di “continuare a provarci”, perché prima o poi l’oggetto del desiderio, logorato, cederà. Nella peggiore delle ipotesi - che poi, tristemente, è la quasi normalità nella società maschile - il rifiuto viene vissuto come un affronto, un attentato alla propria virilità che va vendicato con tutta la forza possibile. Se non usando la violenza fisica, comunque usando le parole: da “gatta morta” a “drizzac*zzi”, passando per “f*ga di legno” e per tutto l’ampio spettro di insulti sessisti relativi ad una ragazza che “non ci sta” (paradossale comunque, per inciso, che anche la ragazza che “ci sta” poi venga insultata con l’altro pacchetto di insulti gratuiti che consistono nelle varie declinazioni regionali della parola “putt*na”).
Il rifiuto, invece, è un’occasione di crescita. Fin da piccoli, molti maschi si arrabbiano tantissimo se non vincono ai giochi. Ma prima di imparare a vincere bisogna imparare a perdere. Cioè: se prima non capisci perché perdi non puoi sapere come vincere. Per vincere devi saper leggere il comportamento dell’altro giocatore, prevedere le sue mosse, gestire al meglio la tua mano… e avere un pizzico di fortuna. Se giochi dando per scontato di vincere, senza porre attenzione al materiale a tua disposizione e a come si sta muovendo l’avversario, è garantito che perderai sempre.
Perdere al gioco è una frustrazione che ci fa crescere, che ci fa imparare qualcosa. La stessa cosa, un “no” pronunciato da una persona. È importantissimo mettere da parte fin da subito l’orgoglio ferito, l’ansia e la rabbia che il “no” detto da un altro può procurarci, e ragionare sulle motivazioni di questo rifiuto. Anche - perché no - chiedendo una spiegazione. Entrare in relazione significa soprattutto parlarsi, discutere, confrontarsi, esprimere un desiderio e vedere qual è il desiderio dell’altra persona, accettare come legittime le risposte e le motivazioni dell’altra persona (legittime quanto le proprie).
Una vecchia pubblicità dei miei tempi parlava dell’uomo “che non deve chiedere mai”. Non deve chiedere perché è scontato che tutte le donne cadano ai suoi piedi. Ecco, non c’è stato mai nulla di più tossico per la nostra società di un certo tipo di pubblicità. Quella, per intenderci, che replica gli stereotipi del maschio dominatore e che sessualizza e oggettivizza sempre e comunque il corpo femminile (ci siamo dentro in pieno ancora adesso, peraltro). Ecco: l’uomo invece deve chiedere, sempre. Deve confrontarsi, deve scoprire le sue carte in un gioco di seduzione reciproca, deve mettersi a nudo mettendo in conto che può essere ferito. Le ferite guariscono.
Il “corteggiamento” in fondo è un gioco, che va giocato in due. Lo scopo di questo gioco è (anche) una ricerca del consenso. Il consenso10 - un “sì” esplicito che non è eterno e immutabile - è il cardine, il punto focale di tutto quello che ci può essere in una relazione. Se non c’è il consenso (tuo e dell’altra persona) la relazione diventa per forza di cose una forma di violenza. Nessuno, in una relazione, dovrebbe fare cose che non gli stanno bene o che lo mettono a disagio: né tu, né nessun altro.
[continua…]
Cosa mi gira in testa?
In queste settimane, grazie a Paolo (collega di lavoro e lettore di Patrilineare) sto leggendo Hirayasumi di Keigo Shinzo (qui una preview di J-Pop). Hirayasumi (che vuol dire qualcosa tipo “pausa lavorativa” o “congedo”) è la storia di Hiroto Ikuta, un freeter (parola composta da free e arbeiter, lavoratore in tedesco). I freeter in Giappone sono i giovani che al termine degli studi non entrano nel “giro” del lavoro considerato normale, ma si accontentano di lavoretti precari per restare a galla, ma anche liberi e senza preoccupazioni. Hirayasumi è prossimo all’uscita del volume 5, e io ne sono completamente conquistato. Sarà perché amo i manga e gli anime “slice of life”, e in fondo questa storia di piccoli fatti quotidiani e relazioni tra persone apparentemente agli antipodi mi ricorda moltissimo Maison Ikkoku, il capolavoro di Rumiko Takahashi che fu la mia ossessione negli anni universitari.11
Padri di merda secondo Benedict Cumberbatch - Photo © Netflix
Se Hiroto Ikuta di Hirayasumi è un tipo di maschio molto diverso dallo standard giapponese (ma anche occidentale, mi viene da dire), Vincent Anderson - il protagonista della serie Eric, recentemente uscita su Netflix - è esattamente il tipo di padre tossico che molti di noi hanno conosciuto nei decenni passati e che purtroppo è spesso tuttora presente tra noi. Potrei consigliarti questa serie, perché c’è Benedict Cumberbatch che anche imbruttito e con gli occhiali da nerd anni ‘80 sprizza carisma da ogni pelo della barba, e perché c’è un’interessante analisi sui danni di un certo tipo di genitorialità. Il problema di Eric è che tu pensi di guardare una serie su un padre cui viene rapito il figlio e va in sbatti per ritrovarlo, mente un episodio dopo l’altro scopri che è anche una serie su un detective nero e gay che indaga su un giro di pedofili mentre il suo partner muore di AIDS, ma anche una serie sulla gentrificazione di alcuni quartieri di New York negli anni ‘80 e sulla collusione tra politica, palazzinari e mafia, e insomma… tanta roba, a un certo punto pure troppa.12
Comunque, per citare anche
che mi faceva notare questa cosa in merito a un video circolato molto negli ultimi giorni di Salvatore Aranzulla intervistato a BSMT, il Vincent Anderson di Eric è uno di quei padri che mettono il lavoro davanti a tutto - il contrario di Hiroto Ikuta, che peraltro non ha né moglie né figli. Il Salvo nazionale, che ha sempre mostrato alcuni tratti un po’ ossessivi, ha deciso di dormire in un’altra stanza perché lui la mattina si deve svegliare per fatturare, e la moglie gli fa questo meraviglioso regalo di smazzarsi la bambina altrimenti lui farebbe degli errori che potrebbero costare decine di migliaia di euro… Insomma, dai. Cerchiamo di essere meglio di così.Anche stavolta sono andato lunghissimo, è più forte di me. Grazie per aprire comunque le mie mail e leggerle, magari anche in più riprese. Grazie se sei iscrittə da poco, o da lungo tempo. Grazie soprattutto se hai contribuito o vuoi contribuire lasciandomi un obolo su Ko-fi (la gif è sempre qui sopra se vuoi cliccare). Ti mando un abbraccio virtuale, alla prossima.
Ahah il maschio Aranzul! 🩷
Stavo giusto pensando se guardare o no Eric.
Al solito grazie per i consigli, appuntata subito la serie Eric. Nel Testo unico dei doveri del giornalista c'è un passaggio che riporti e credo sia una delle cose fondanti della professione: essenzialità e continenza. Due parole che raccolgo e mi hanno già fatto venire alcune idee per una puntata di Linguetta.