Trasmettere la complessità, rifiutare le tifoserie
Inevitabilmente, anche a questo spazio di riflessione capita di essere preso per il bavero dagli eventi di attualità. Questo è uno di quei casi.
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Bentrovatə, e grazie di farmi entrare nella tua casella email. Ormai mi sono assestato su una newsletter ogni 10 giorni, l’1/11/21 del mese, e mi ci sto trovando bene. Spero anche tu. Nel frattempo, valuto come far evolvere il progetto e non escludo che sarai presto coinvolto in una qualche forma di sondaggio. Vedremo.
Chiedo scusa a quantə si sono iscrittə negli ultimi giorni: questa uscita di Patrilineare sarà forse un po’ confusa, perché ho cominciato a scrivere sull’onda dell’emotività, cosa che di norma mi impongo di non fare (sono pur sempre un capricorno) ma che stavolta mi sembrava potesse essere un buon modo per buttare giù dei pensieri che in un altro momento - forse - mi sarebbero sfuggiti. Se segui questa newsletter da un po’, avrai capito che c’è una cosa che a me preme moltissimo nell’ambito della “trasmissione di valori” che avviene tra un padre e un figlio. E questa cosa è l’educazione alla complessità.
Per una volta non parlo solo di differenze, ma proprio di complessità del reale. Uno degli aspetti principali di una realtà complessa come quella che viviamo sono le questioni di genere, su cui ho battuto come un dannato nelle ultime uscite. Ma ovviamente non c’è solo questo. La tendenza a semplificare la realtà non è una tendenza solo del patriarcato, ma di tutte le destre in generale: noi di qua, loro di là, il maschio così, la femmina cosà, i buoni e i cattivi, il bianco e il nero, tutto sempre molto netto, tutto sempre semplificato in un modo di ragionare binario, on/off.
Il pensiero binario ha una cosa che lo rende invariabilmente favorito: è rassicurante. Se io riduco la complessità del reale in due semplici categorie, non devo nemmeno ragionare più di tanto, se non è zuppa è pan bagnato1. Ragionare sulla complessità fa girare la testa, ti fa entrare in un rabbit hole di fatti e opinioni diverse, di sfumature di grigio, potresti capire che i buoni sono anche un po’ cattivi, o che i cattivi in fondo sono anche un po’ buoni. Che le vittime e i carnefici si scambiano spesso e volentieri i ruoli, abbracciati in una spirale di violenza infinita.
Vabbè, hai capito dove voglio andare a parare. Il tema grosso degli ultimi mesi è il conflitto israeliano-palestinese, e a me è sempre parso (come ha spiegato Luca Sofri in un post per me cristallino) che dire la mia sulla questione non sposti una virgola. Te la dico comunque, qui, adesso. Quella guerra, come altre guerre, deriva da vicende troppo complesse per ridurle a una tifoseria. Mi rendo perfettamente conto, però, che la bilancia della storia si sta inclinando decisamente da un lato, e perciò trovo cosa buona e giusta che si manifesti per un cessate il fuoco, che si dicano frasi come “stop al genocidio” o che si invochino soluzioni diplomatiche.
Alessandro Baricco, in un suo saggio di qualche anno fa, The Game2, ipotizzava che la conoscenza delle persone nate dopo la diffusione capillare di Internet fosse un tipo di conoscenza diverso da quella delle persone nate prima degli anni ‘90 (come me). L’approccio pre-Internet allo studio di una questione sarebbe più approfondito, analitico, esaustivo. L’approccio post-Internet sarebbe invece più superficiale, ma attenzione: non superficiale nel senso negativo del termine. Superficiale nel senso che - non essendo capace o essendo poco abituata a scendere in profondità - l’intelligenza di un nativo del Game riesce per contro a spaziare su vastissime superfici di conoscenza tutte diverse ma in qualche modo, probabilmente, collegabili tra loro in modi che un “esploratore degli abissi” novecentesco non riuscirebbe a gestire.3
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Perché questa digressione su Baricco? Perché a me pare che la complessità possa essere vista ed esperita sia da chi è più “vecchio” e ha un approccio “verticale” (approfondisce, analizza un determinato fenomeno), sia da chi è più “giovane” e ha un approccio invece “orizzontale” (sa spaziare sulle superfici e cogliere le connessioni tra fenomeni apparentemente non collegati). Il problema nasce quando siamo “orizzontali” ma limitiamo il nostro orizzonte al palmo del nostro naso, alimentando e propagandando (ad esempio sui social media, che per natura favoriscono e anzi amplificano le polarizzazioni) soluzioni binarie e non complesse.
Avere idee e opinioni anche discordanti, ma motivate e argomentabili, è una delle ricchezze maggiori dell’essere umani. Quello che purtroppo non riusciamo più a fare è confrontare queste idee discordanti con il dovuto rispetto. Rispetto vuol dire capire che un’opinione non è un fatto, che può essere solo vero o falso, ma un’insieme di pensieri, vissuti, magari anche pregiudizi e stereotipi che non puoi sapere da dove vengano ma con cui ti devi misurare, anche se a volte sembra di misurarsi con il proverbiale piccione scacchista.4
I ragazzi e le ragazze che la settimana scorsa a Pisa e Firenze hanno manifestato pacificamente a favore del popolo palestinese potevano essere persone che hanno colto la complessità del conflitto e hanno deciso di esprimere la propria posizione (sempre e comunque a favore della pace), o potevano essere persone dal pensiero binario, che in una ideale tifoseria tra Israele e la Palestina hanno scelto di essere ultrà5 della Palestina, semplicemente ignorando la complessità del reale. Io questo non lo posso sapere.
Frame da una ripresa video del 23 febbraio a Pisa
Ma certamente chi li ha spinti in un vicolo cieco, circondati e manganellati senza pietà, con una strategia che a molti di noi ha ricordato Genova in quel maledetto 2001 sul quale si sono schiantate tutte le speranze degli anni ‘90, pensava decisamente in modo binario. Manifestanti pro-palestina = terroristi = cattivi. Equivalenze semplici per una reazione pavloviana.
E mi domando se questi poliziotti hanno dei figli, e che cosa gli stanno trasmettendo.
Linkando qua e là
Articoli, post, notizie che mi hanno fatto pensare “aspetta che me lo segno per Patrilineare”…
BigMama ti vede - Photo by @bigmamaalmic
Dedicato a te, che magari pensi ancora che il cervello maschile e quello femminile siano biologicamente “un po’ diversi”… no. O meglio, “nì”: dipende dall’identità di genere e non dal sesso biologico e comunque non ha nulla a che fare con leggende metropolitane tipo “il cervello femminile è più piccolo di quello maschile”, come spiega la neuroscienziata (e autrice di “The Gendered Brain”) Gina Rippon sul Guardian.
Strascichi (positivi) di Sanremo: Loredana Bertè è finita su una gigantografia a Times Square come ambasciatrice della parità di genere nel mondo discografico. Marianna Mammona (aka BigMama), invece, è stata chiamata a parlare alle Nazioni Unite di fronte a una platea di adolescenti nell’ambito dell’iniziativa "Gcmun talks". Il suo discorso, che Fanpage riporta integralmente e in italiano, ha a che fare con bullismo, body positivity ed empowerment. Applausi.
A volte la RAI stupisce (ovvero: non di soli comunicati stampa bulgari vive il servizio pubblico). Dal centro di produzione di Torino arriva “Oblò: notizie da smacchiare”, una serie per ragazzi prodotta da Scuola Holden che insegna a riconoscere e combattere le fake news. Su Rai Gulp debutta invece “S-Fidiamoci!”, una serie targata Movimenti Production (quelli che producono le serie di Zerocalcare) incentrata su traumi, pressioni sociali e vergogne tipici dell’adolescenza.
Invece: notizie pessime (perché non ci dobbiamo mai smentire). Come italiani, riusciamo a renderci ridicoli anche fuori dai confini nazionali, con i commenti sessisti alla notizia riportata da Gazzetta dello Sport sull’infortunio di una guardialinee spagnola durante una partita. Più tragica ancora, la storia dell’adolescente non binary morto in seguito a una lite con alcune compagne di classe in Oklahoma (uno degli stati più ostili alla comunità LGBTQIA+). Nex Benedict era anche di discendenza Choctaw, il che ha portato la comunità indigena ad esprimersi sulle leggi restrittive dello stato nei riguardi delle persone indigiqueer e 2spirit.
Da Ms Magazine, la storia di Lilly Ledbetter e del Fair Pay Act, che nell’ormai lontano 2009 ha dato inizio in USA al dibattito sulla gender pay equity. È una storia molto istruttiva, che coinvolge anche Barack Obama e Ruth Bader Ginsburg. Ed è anche un’ottima intro all’intervista del mese…
Tre domande a… Brigitte Sardo
Brigitte Sardo è un’imprenditrice torinese, già presidente di Apid - Imprenditorialità Donna Torino (“costola femminile” di API - Associazione delle Piccole e Medie Imprese di Torino e Provincia) che da poco è anche presidente del Comitato Imprenditoria Femminile (CIF) di Torino. In tema di gender pay gap e di lavoro femminile, ho pensato che fosse la persona più indicata “a portata di mail” con cui scambiare due parole…
Brigitte Sardo, dal suo profilo LinkedIn
Parliamo di gender gap. Dove sono le radici di questa sperequazione, in quali tipologie di impresa sono più diffuse e cosa possono fare le imprese per contrastare il fenomeno?
Il gender gap è un fenomeno che tocca il nostro territorio così come il resto del nostro Paese e dilaga ovunque con tutte le conseguenze ormai note da sempre, non solo morali ed etiche ma anche di effettivo impatto sociale ed economico. Laddove vengono rispettati i diritti il lavoro è migliore sotto tutti i punti di vista. Le radici di questo fenomeno così diffuso hanno senza dubbio origini in uno sfondo culturale atavico ed importante, che fino a qualche decennio fa vedeva la partecipazione delle donne nel mondo del lavoro spesso ostacolata, sottopagata, se non addirittura in nero, con la doppia incombenza delle cure parentali, di solito delegate alle donne. Nei ruoli apicali per moltissimo tempo le donne non sono state prese in considerazione, se non in casi particolari. Il trend per fortuna sta cambiando, ma con difficoltà.
l settori dove ad oggi il divario è ancora evidente sono quello industriale e quello politico, mondi di prerogativa maschile che con difficoltà scardinano gli stereotipi. Questa situazione si rende più evidente negli ultimi tempi con l'avvento della digitalizzazione e dell’Industria 4.0; ambiti a cui le donne spesso accedono con maggiore difficoltà, sia nei percorsi di studi che nelle posizioni lavorative più tecniche. Grazie ai numerosi progetti ed alle azioni che si stanno implementando a tutti i livelli (associativo, imprenditoriale, istituzionale), il divario si sta riducendo quasi ovunque, ma bisogna lavorare ancora molto per azzerarlo e lavorare di più sulla cultura scolastica, facendo capire ai giovanissimi che non esiste un "lavoro per maschi o per femmine" e che non c'è un ruolo più adatto ad un uomo o ad una donna, pur nel rispetto effettivo delle differenze di genere, che vanno declinate sempre al positivo.
Dobbiamo far capire che le opportunità sono le stesse per tutti e che i nostri ragazzi devono imparare a coglierle tutte, siano esse legate alla meccanica, alla robotica o al digitale. Uno degli strumenti messi in campo dal governo e che, dal mio punto di vista è efficace e molto importante al fine dell'abbattimento del gender gap, è il sistema di certificazione della parità di genere, in quanto è destinato a premiare le imprese che sviluppano progetti per garantire la gender equity.
È opinione comune che se la maggioranza delle donne ad oggi non occupate entrasse/restasse nel mondo del lavoro il PIL aumenterebbe: qual è il motivo per cui questo ingresso non è allo stato attuale molto favorito?
Concordo pienamente sul fatto che se le donne oggi non occupate entrassero nel mondo del lavoro e quelle occupate vi rimanessero, il PIL del Paese aumenterebbe nettamente. Il problema dell'uscita delle donne dal mondo del lavoro (o del loro non ingresso) è legato alla mancanza di servizi per la cura e la conciliazione vita-lavoro. La maggior parte delle donne che lascia il lavoro lo fa dopo la maternità perché non sa come conciliare la vita lavorativa con quella di cura dei figli. A questo si aggiunge il fatto che l'età media si alza e spesso le donne, che sono i soggetti culturalmente più deputati alla cura, si devono occupare non solo dei figli, ma anche dei genitori anziani, impedendo loro di lavorare. Se ci fossero più servizi per la famiglia, soprattutto con delle rette più alla portata di tutti, sono certa che il numero di lavoratrici aumenterebbe e con esso anche il PIL del nostro Paese.
Tra gli obiettivi dei CIF c'è proprio l'attivazione di progetti volti a sensibilizzare le imprese e le istituzioni sul tema della conciliazione vita-lavoro. A questo si aggiunge la presenza nel nostro comitato di ben 4 sindacati (CGIL, CISL, UIL e UGL), che da sempre lavorano sul tema e che, anche in seno al nostro gruppo, rappresentano collaborazioni strategiche per la messa a punto di azioni e progettualità a riguardo.
Hai una tua “ricetta” per un empowerment femminile che porti ad un aumento dell’imprenditoria femminile?
Uno degli ingredienti della "mia ricetta" potrebbe essere il mentoring: mi piacerebbe che grandi e strutturate imprenditrici, così come imprenditrici più piccole con storie virtuose, siano l'esempio e le mentor delle imprenditrici che vogliono crescere e affrontare nuove sfide. Questo dal mio punto di vista è parte di un progetto di empowerment che si unisce alla formazione in varie aree di competenza come per esempio la cultura finanziaria, il valore del welfare di secondo livello, così come il fare rete e condividere. Sicuramente è necessaria la collaborazione non solo delle imprese ma anche delle associazioni e delle istituzioni: ciascuno di questi attori ha un ruolo molto importante. Tutti, a livelli diversi, possono e devono intervenire per garantire la crescita delle donne: chi a livello legislativo e regolamentare, chi a livello operativo e chi promozionale. Solo con la partecipazione di tutti si può raggiungere il miglior obiettivo.
Cosa mi gira in testa?
La parola “capolavoro” la uso poco, ma mi sembra adatta a The Zone of Interest, che ho visto questa settimana e che consiglio a tutti nell’originale tedesco (temo ancora più pugno nello stomaco che doppiato). (Ri)parlare di olocausto non è semplice, e Jonathan Glazer lo fa ribaltando la prospettiva: ne parlo meglio qui.
“La vita è bellissima” - Photo @A24 / Film4 Productions
Da un punto di vista meno impegnato, ti voglio segnalare due nuovi singoli che secondo me spaccano, apparsi da pochi giorni sul mio radar Spotify: uno prettamente boomer, Soul Wandering di Paul Weller che a 65 anni è ancora il dio del britpop. L’altro molto più millennial/genZ ma ugualmente affascinante: Non mi riconosco di MACE con Centomilacarie e Salmo. Da tenere d’occhio perché se tanto mi da tanto i rispettivi nuovi album saranno una bomba.
Spesso mi capita che mi vengano chiesti “libri queer” (credo si intenda libri sulla teoria queer o libri che spiegano cosa vuol dire queer). Mentre lo sguardo vaga sugli scaffali della mia libreria, voglio citarti quattro graphic novel che ho amato e che secondo me ti fanno riflettere sulla questione. Pelle d’uomo di Hubert e Zanzim, un fabliaux medievale illustrato sul gender swap, Il principe e la sarta di Jen Wang, in cui il protagonista maschile esprime il suo genere in modi non convenzionali (è un cross dresser), Barba: storia di come sono nato due volte di Alec Trenta, la storia di una transizione FtoM raccontata con grande leggerezza e chiarezza6 e Rebis di Carlotta di Cataldo e Irene Marchesini, un’avventura magica in cui i confini dell’identità di genere sfumano fino a scomparire.
Grazie di cuore, come sempre, per aver letto fin qui.
Sappi che puoi non essere d’accordo con me su tante cose, ma il fatto stesso che tu mi legga testimonia che hai voglia di confrontarti con qualcosa di nuovo. Parliamone se vuoi anche via mail, ma sempre con rispetto e con la coscienza che siamo esseri meravigliosamente complessi.
Ti auguro il meglio, alla prossima.
Per l'intersezione queerness e fumetto "Queer: a graphic history" è una storia del pensiero e dei queer studies a fumetti, secondo me è davvero un ottimo, ottimo punto di partenza per esplorare il concetto. Mi pare che in italiano lo abbia pubblicato Tlon?
"Il principe e la sarta" mi mancava, grazie. Rilancio con il bel saggio a fumetti "Ovunque. Esplorazioni cromatiche del mondo Queer" e col racconto autobiografico a fumetti "Gender Queer" di Maia Kobabe.