Parole sbagliate, ragazzi soli: il rap, il maschile e il bisogno di ascolto
Qualche settimana fa c'è stata una notizia che ha a che fare con Marracash e che presenta il solito panico morale intorno ai testi hip hop: parliamone.
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Rieccomi a bussare alla tua casella di posta: disturbo? Spero di sì! Ma un disturbo buono, che porta a riflettere, magari ad ascoltare un punto di vista un po’ diverso dal tuo e farti un’idea avendo qualche elemento in più. Questa è una di quelle uscite della newsletter che prendono spunto da una notizia di cronaca. Chi mi legge da più tempo sa che non amo molto scrivere di attualità. Esiste una sezione dedicata alle notizie (che alcuni apprezzano di più, altri di meno)1 proprio per lasciare spazio all’inizio per qualche mia riflessione più o meno approfondita su un tema a scelta. È anche vero però che a volte (come nel caso della sentenza della corte suprema inglese sulle donne biologiche) l’attualità mi fa talmente girare i coglioni che devo scriverne subito.
Quello di oggi è uno di questi casi, anche se la notizia è di quasi un mese fa. Ma mi ero ritagliato l’articolo e me lo ero incollato nelle note del cellulare in attesa del momento buono… che evidentemente è arrivato.
Il caso Marracash e la laurea mancata
Qualche settimana fa ha fatto discutere la notizia della laurea honoris causa in Psicologia proposta per Marracash e poi ritirata. L’Università di Catania, dopo un primo annuncio, ha fatto marcia indietro a causa delle polemiche sollevate da una parte del corpo docente su alcuni testi passati del rapper, giudicati - a ragione, non ci nascondiamo dietro un dito - sessisti. Sai meglio di me che questa storia dei testi sessisti è ormai invariabilmente associata in particolare ai sottogeneri dell’hip hop (la trap di Tony Effe & C. è solo l’ultima arrivata) ed è comunque una questione che ha radici molto più profonde nel pop italiano in generale.2
Marracash, da king del rap quale è, ha risposto con lucidità. In un’intervista rilasciata a La Stampa del 18 aprile 2025, ha ricordato come il rap, per sua natura, racconti in modo crudo ambienti e vissuti marginali. Ha sottolineato che la violenza presente nei suoi testi non è - ovviamente - un invito a replicarla, ma una rappresentazione di una realtà difficile, spesso disperata. E ha aggiunto un passaggio secondo me molto importante:
“Secondo me non c’è una volontà cosciente di essere sessisti. C’è più una voglia di dire le cose scorrette. Quando fai rap a una certa età vuoi essere contro, cattivo, irriverente, e in questo momento quella cosa lì è il tabù. C’è anche un po’ di paura dei giovani maschi di fronte all’empowerment femminile. La reazione magari è di chiudersi in una mascolinità ancora più accentuata”.
Marracash fa parte di uno sparuto ma importante gruppo di artisti che hanno fatto un percorso sul maschile che li ha portati a cambiare completamente punto di vista sugli stereotipi e le performance di genere che molti rapper incarnano (i suoi ultimi tre album sono lì a testimoniarlo) e personalmente trovo che questa cosa abbia tutto di positivo. I rapper che scrivono testi sessisti lo fanno essenzialmente per provocazione3 e per contro i ragazzi che si radicalizzano non lo fanno per colpa delle canzoni che ascoltano, ma per solitudine, incomprensione, mancanza di ascolto.
Troppo spesso giudichiamo il rap (o la trap) come se fosse un manuale di comportamento. Ma come nei romanzi noir, nei fumetti “pulp” o nei film crime, raccontare la violenza non significa approvarla. È rappresentazione, non propaganda. Molti rapper — Marracash incluso — narrano ambienti di disagio, dove la violenza è quotidiana, dove le relazioni sono segnate dall’abbandono e dalla mancanza di fiducia. Il linguaggio usato è iperbolico, crudo, spesso sessista. Non è una giustificazione, ma è una chiave di lettura: il rap mette in scena il dolore e la rabbia di chi si sente tagliato fuori dalla possibilità di una vita "normale".
Criticare il linguaggio sessista è legittimo, anzi necessario. Ma è altrettanto importante non confondere la rappresentazione di un problema con la sua causa.
Marracash - Photo by Andrea Bianchera
In molte narrazioni rap o trap emerge una ferita nascosta: la difficoltà maschile a riconoscere, esprimere e condividere il proprio dolore. È un problema noto anche alla psicologia dello sviluppo: Terrence Real,4 ad esempio, ha descritto molto bene come fin dall'infanzia i maschi vengano socializzati a negare emozioni come la tristezza, la paura, la vulnerabilità. Ci viene insegnato che dobbiamo essere "forti", "autonomi", "invulnerabili". Chi non riesce a mantenere questo standard si sente fallito. E spesso, per difendersi, si rifugia nella rabbia, nella chiusura, nella violenza simbolica. La trap, il rap, a volte esprimono esattamente questa trappola emotiva: l'incapacità di chiedere aiuto, mascherata da aggressività.
In questo contesto, pensare di risolvere il problema censurando la musica è illusorio. Non si combatte la solitudine emotiva dei ragazzi vietando canzoni, ma aprendo spazi reali di dialogo non giudicante. Ma cosa significa, nella pratica, “dialogo non giudicante”? Significa innanzitutto accettare che il primo bisogno di chi parla non è essere corretto, ma essere accolto. Quando un ragazzo viene da noi e dice qualcosa di estremo — magari una frase sessista, violenta, o semplicemente provocatoria — la tentazione immediata è correggerlo, rimproverarlo, o zittirlo. È comprensibile. Ma la vera sfida è restare presenti senza chiudere la porta.
Un esempio banale: se un ragazzo ti dice "Tanto alle donne interessa solo se hai i soldi" - uno dei tipici ragionamenti incel che abbiamo imparato a riconoscere - invece di rispondere subito "Questa è una cazzata bella e buona" oppure "Non devi pensare cose così sbagliate", puoi fermarti e dire qualcosa come: "È evidente che ti senti molto arrabbiato o deluso... puoi raccontarmi perché?". In questo modo non approvi l'idea sbagliata, non lasci passare il messaggio come fosse corretto ma inviti ad andare più a fondo, a raccontare l'emozione che sta dietro alla frase.
Spesso dietro agli estremismi verbali c’è un senso di esclusione, la paura di non essere amati, esperienze di rifiuto o umiliazione. Se riusciamo ad aprire questi strati più profondi, possiamo offrire alternative senza imporle, accompagnando i ragazzi a costruire visioni diverse da soli.
Nella pratica, questo approccio significa:
Ascoltare i ragazzi senza correggere subito, creando uno spazio dove possano esplorare senza paura di essere giudicati.
Riconoscere la rabbia o il disprezzo come segnali di un bisogno più profondo: bisogno di riconoscimento, di appartenenza, di fiducia.
Offrire modelli alternativi di maschilità non come pipponi calati dall'alto, ma come testimonianze vive: mostrare, ad esempio, che essere vulnerabili, chiedere aiuto o ammettere una fragilità non sono segni di debolezza, ma atti di forza emotiva.
Educare oggi significa soprattutto saper stare accanto ai ragazzi nei momenti in cui si mostrano meno "presentabili". Non per approvare tutto ciò che dicono o fanno, ma per essere lì quando si sentono più soli. Come scriveva bell hooks in La volontà di cambiare5, il cambiamento maschile non può avvenire senza amore e comprensione: i ragazzi devono sapere che sono degni di amore anche quando falliscono le aspettative di forza che la cultura impone.
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Quando i giovani non trovano ascolto, quando non riescono a dare significato al proprio dolore, la violenza (verbale o agita) diventa l'unico linguaggio possibile. Non perché siano "cattivi", ma perché si sentono invisibili. A questo punto - e perdonami se stavolta faccio veramente il professorone - mi torna utile una citazione di Jean Baudrillard, che in Lo scambio simbolico e la morte6 faceva un'osservazione che mi ha sempre colpito moltissimo:
“Non c’è repressione senza simulazione, né violenza senza simulacro. La società non può funzionare se non escludendo ciò che mette in questione il suo principio di realtà. Ma ciò che viene escluso ritorna come scena del crimine.”
In sintesi, non è la miseria materiale a generare violenza, ma la miseria simbolica. È l'esclusione dal senso, l'esclusione dalla scena del mondo, a rendere necessario un ritorno violento sulla scena. Quando un ragazzo parla con rabbia, spesso sta solo chiedendo attenzione. Quando si chiude nel silenzio, sta gridando senza voce. Se vogliamo davvero cambiare le cose, non basta censurare, punire o correggere: serve esserci. Serve accogliere quella rabbia come un sintomo, non come un reato morale. Serve offrire parole nuove dove oggi ci sono solo grida.
Perché la vera "cura" per la violenza non è la repressione: è il senso.
Linkando qua e là
Articoli, post, notizie che mi hanno fatto pensare “aspetta che me lo segno per Patrilineare”… E se le notizie non sono qui, non disperare: a volte ce le scambiamo sulla chat di Patrilineare!
Ecco Tom Simons, più noto su YouTube come TommyInnit - Photo © Paul Winter
Valditara amore mio: la nuova proposta di legge sull’educazione sessuale e affettiva a scuola, con obbligo di consenso informato da parte dei genitori e previsione di una “materia alternativa” in caso i genitori si esprimano per il no mi lascia perplesso. A tal proposito riprendo un interessante thread di chiedendomi: ma se la religione cattolica è presentata come una materia opt-out, nel senso che devi essere tu genitore preventivamente a segnalare che non vuoi avvalerti di quell’insegnamento, perché cazzo allora non rendiamo opt-out (invece che platealmente opt-in) anche l’educazione sessuale e affettiva? Comunque sia, su questa che è un po’ la notizia del momento abbiamo anche il punto di vista di Repubblica, quello del Corriere e quello del Sole 24Ore, per buona misura. L’intervista dove parla Valditara non ve la linko per pietà. Sarebbe come sparare sulla croce rossa.
Sullo stesso tema ti propongo anche il punto di vista dell’UAAR in un pezzo di Alessandro Cirelli sulla rivista “Nessun Dogma”.7
Derek Guy su Bloomberg ci racconta l’evoluzione dell’estetica del maschio alfa (pezzo molto lungo ma superinteressante).
Sempre sul tema di performare il maschile, Eleonora Santamaria su Il Tascabile analizza il sottovalutato fenomeno dei Drag King.
Grazie al cielo abbiamo trovato un “antidoto” a Andrew Tate: si chiama Tom Simons aka TommyInnit e promette molto bene (se non sai chi sia è comprensibile, ti lascio qui un suo profilo).
Il Fatto Quotidiano intervista la sociologa Raffaella Ferrero Camoletto - esperta di genere, corpo e sessualità - sulla fragilità dei giovani maschi.
Nicoletta Pisanu su Agenda Digitale scrive il pezzo con il titolo del mese: “Social e moschetto, incel fascista perfetto”.
Vanity Fair parla della “nuova” serie Netflix Maschi veri (nuova tra virgolette perché se leggi Patrilineare da un po’ saprai che è il remake pedissequo di Machos Alfa, ma diamogli comunque una chance, c’è Pietro Sermonti)
Un resoconto della riapertura del processo ad Harvey Weinstein, che nel 2017 aveva dato origine al movimento #metoo. Qualcosa è cambiato.
Anna Silman sul Guardian racconta la “womanosphere” (o “femosphere”, come viene anche chiamata): magrezza, fertilità e sottomissione, per rendere l’America “hot again”.
A proposito di tradwives, Ms. Magazine analizza il film Companion di Drew Hancock con la lente del male gaze (di Companion ho scritto anche io qui).
I danni dei social sul sesso, spiegati da Andrea Maiellano e dalla psicologa Martina Truppo su Tom’s Hardware (fonte bizzarra, ma bella impaginazione).
Perché la gente corre il rischio del sexting? Ce lo spiega (bene) il Post.
Maria Teresa Gasbarrone su Fanpage fa una bella raccolta di studi sugli effetti del consumo di pornografia sul cervello.
Bruno Saetta su ValigiaBlu scrive un lungo e interessante approfondimento sulla verifica digitale dell’età per i minori on line: come in ogni cosa, ci sono luci ed ombre, opportunità e rischi.
Il Consiglio di Sorveglianza di Meta chiede chiarezza sulla nuove politiche contro i discorsi d’odio.
Alessandra Vescio su MarieClaire racconta l’odio on line per le donne, in costante crescita.
A seguito della sentenza sulle “donne biologiche”, i primi problemi per le donne trans* nel Regno Unito.
Come ci fa sentire boicottare Harry Potter alla luce delle idee di JKR? Quando l’artista è un mostro, la sua arte va separata dalla sua persona… ma con chi è vivo e vegeto è un po’ più difficile.
Il pezzo folcloristico: su New Scientist c’è uno studio che evidenzia i vantaggi della realtà virtuale nello spiegare ai maschi cosa sia il catcalling e come faccia sentire le donne.
Un video rap figo (che poteva essere molto cringe e invece no) dell’Istituto Superiore di Sanità a proposito dell’HPV (Papillomavirus). L’ho preso da che nell'ultimo numero di Diritti Sessuali ha superato sé stesso (in lunghezza ma anche in rilevanza del post).
E infine, l’orgoglio torinese: un’intervista ad Alessandro Ponzio, docente di Storia dell’omosessualità, su Open.
Cosa mi gira in testa?
In questi giorni, come forse è capitato anche a te, ho cercato di staccare il più possibile. Quello che soprattutto mi è rimasto in testa, complice una bella gita ad Omegna, è il Museo Gianni Rodari - un piccolo gioiellino di interattività a misura di bambini e adulti con un bambino interiore mai sopito.
Museo Rodari - Foto dell’autore
C’è anche una parte (che i bambini tendono a saltare, ma che a me ha emozionato tantissimo) con dei contributi audiovisivi e interviste di Rodari negli anni ’70. Contributi che mi hanno convinto una volta di più, se ce ne fosse stato bisogno, che Gianni Rodari è stato uno dei più grandi intellettuali italiani e che i suoi scritti sulla fantasia, sull’invenzione di storie e sull’educazione andrebbero approfonditi in tutte le scuole. Invece mi pare che siano un po’ dimenticati, a parte qualche bella filastrocca inserita qua e là nei libri di lettura. In uno dei filmati (ecco, te l’ho recuperato, è in un archivio della Radiotelevisione Svizzera Italiana) parla dei finali delle storie. Le storie non devono finire. O se finiscono, devono finire con una domanda. Ed è il piccolo lettore che deve attivare il cervello e rispondere a questa domanda. Rodari lo ami da bambino e lo apprezzi ancora di più da adulto. Non dimentichiamolo mai.
Raccomandazioni
Non so più chettelodicoaffà, comunque… è sempre attiva la “Raccolta punti di Patrilineare” per cui se clicchi sul pulsante “Invita un amico” e mandi il link a una - o più - persone che potrebbero iscriversi vinci dei premi.
Per ogni persona che si iscrive grazie al tuo link, la tua posizione salirà nella leaderboard: più sali in classifica più premi guadagni. Peraltro questo mese ho proprio cambiato radicalmente i “premi” per i referral. Se riesci a fare iscrivere 5 persone ti porti a casa il “Kit di Patrilineare” (una bibliografia abbastanza nutrita, un glossario completissimo, la raccolta dei mitici “dialoghi con Giancoso”). Se sali a 10 persone iscritte grazie a te, ti arriva il “Libro di Patrilineare” che è una roba in beta perenne e che non è ancora nemmeno un self publishing Amazon, ma ti assicuro che è abbastanza curato ed è un po’ il mio figlio dell’ammore. Se arrivi a 25 ci vediamo direttamente in una “Call di Patrilineare”, perché sei un mito.
Detto ciò, non mi resta che mandarti un abbraccio virtuale e un arrivederci alla prossima volta. Se ti è piaciuto questo numero di Patrilineare lasciami un paio di euro nella tazza di Ko-fi qui sotto. Se ti piacciono tutti i numeri di Patrilineare considera una donazione mensile. Chi lo ha fatto dice che ha ritrovato una serenità e una energia che sembravano scomparse e che ogni mercoledì trova una banconota da 10 euro per strada.
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