Intersex: semplificare troppo è sempre un problema
Chi sono e cosa vogliono le persone intersessuali? E perché il pisellino o la farfallina non bastano a determinare il sesso biologico di un neonato?
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Ciao, sono di nuovo io, Pietro, che busso alla tua casella email e questo è Patrilineare, in un numero come sempre lungherrimo che stavolta inizia parlando di intersessualità: così, de botto, senza un perché.1 Dice Giancoso: ma tu che cazzo ne sai di intersessualità. Rispondo io preventivamente: ovviamente poco, ma se c’è qualcosa che non so - e sono tante le cose che non so - mi documento, leggo, mi confronto. Per evitare, che so, di confondere una persona intersessuale con una transgender, a titolo di esempio puramente casuale.
E allora partiamo dall’inizio. Il problema che la maggior parte di noi ha con il sesso e la sessualità, è che ci piace molto semplificare le cose. Oltre a semplificarle, poi, ci piace anche “normarle” in base a questa ipersemplificazione. È comprensibile. Ce lo siamo detto più volte su questa newsletter, la complessità del mondo ci spaventa, e magari su un dato di fatto oggettivo come un pene o una vulva immediatamente visibili e riconoscibili cerchiamo di costruire un paradigma binario che non ci confonda troppo le idee. Ci pensano già la geopolitica la crisi climatica e la finanza internazionale a metterci ogni giorno sotto il naso fenomeni complessi e difficilmente interpretabili, almeno al riparo delle nostre mutande potremo essere liberi di ridurre questa complessità a un banale interruttore acceso/spento?
Purtroppo, no. L’essere umano è infinitamente più complesso di qualsiasi altra cosa, e il sesso non fa eccezione. Basta studiarlo. Se hai accettato che esistono diversi orientamenti sessuali e diverse identità di genere, forse puoi accettare che esista anche un sesso biologico che non è esclusivamente binario, ma che passa anche lui attraverso uno spettro di manifestazioni diverse2 che prendono il nome di intersessualità. Una volta le persone intersessuali venivano chiamate ermafrodite3 e venivano vissute come un’eccezionalità esotica. Oggi sono la “I” dell’acronimo LGBTQIA+, una lettera che è arrivata solo da poco più di un decennio.4
Le persone intersessuali, stando al titolo di un film scritto da una nota attivista americana “Common As Red Hair”, sono diffuse tanto quanto le persone con i capelli rossi. È una questione genetica, ovviamente, che marca un diverso sviluppo sessuale del feto, e che però ancora oggi viene definita “Disordine della differenziazione sessuale” o DDS, lasciando intendere quindi una condizione medica che deve/dovrebbe essere “trattata”.
Questo “diverso sviluppo sessuale” può manifestarsi esplicitamente a livello di conformazione dei genitali esterni, o può essere limitato ai genitali interni o ancora può essere una questione di cromosomi, o di ormoni. Ci può essere la donna che ha una vagina e al posto delle ovaie ha dei testicoli e ha dei cromosomi XY (la cosiddetta “Sindrome di Morris” o sindrome da insensibilità agli androgeni).5 Ci può essere il neonato maschio con un pene molto più piccolo rispetto agli standard, o la neonata femmina con una clitoride molto sviluppata. Tutte manifestazioni che i medici tendono a voler “normalizzare” chirurgicamente nei primi giorni di vita, al fine di far rientrare la persona intersex nell’ambito di un chiaro ed inequivocabile binarismo di genere (da cui la famosa espressione “sesso assegnato alla nascita”, perché è il medico che “decide” se un neonato è maschio o femmina).
Sexual organs of male, female and intersex humans. Engraving, 1796. - Wikimedia Commons
E arriviamo al punto: come mai le persone intersessuali sono oggi in prima linea ai vari Pride con i loro cartelli e le loro peculiari rivendicazioni? Teniamo presente che, secondo le stime più recenti, stiamo parlando di circa l’1,7% della popolazione, quindi più di cento milioni di persone. Il problema è proprio quello della medicalizzazione. Non c’è una vera e propria ragione (se non - in senso lato - estetica) per affidarsi alla chirurgia neonatale sulle persone intersex. Anzi, a Malta dal 2015 questi interventi sono vietati per legge.6 Intervenire chirurgicamente (in genere per realizzare una vulva o per “normalizzare” una clitoride troppo grande) presenta evidenti rischi in età adulta di creare problemi di dolore o desensibilizzazione durante i rapporti sessuali, o problemi legati all’identità di genere, specie se una persona scopre solo in età adulta di essere stata operata con il consenso (disinformato) dei suoi genitori.7
Una persona intersex non è necessariamente una persona transgender, intendiamoci. Potrebbe però decidere di intraprendere un percorso di transizione di genere dopo aver scoperto che magari aveva un pene ma è stata sempre cresciuta e socializzata come femmina.
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In Italia ancora fino a dieci anni fa i protocolli di molti ospedali prevedevano un intervento chirurgico di default sui neonati intersessuali. La discriminazione delle persone intersex è quindi prettamente una questione medica, legata a doppio filo ai timori delle famiglie d’origine (quelli sì, generati da stereotipi di genere) che non vogliono per i propri figli o figlie una vita contrassegnata da stigma e pregiudizi. Questo perché non viene compresa la differenza tra intersex e transgender, di fatto imponendo ai neonati una vera e propria transizione di genere non richiesta. E allora, in questo caso… chi ci pensa ai bambini?
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Articoli, post, notizie che mi hanno fatto pensare “aspetta che me lo segno per Patrilineare”…
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Dove sono i romanzi e i racconti scritti da giovani autori maschi etero e cisgender (e con protagonisti giovani maschi eterocis)? Grazie ad una segnalazione di
ho letto questo lungo e interessante pezzo di Esquire sulla Sad Boy Literature. Il punto è: abbiamo un mercato editoriale saturo di storie al femminile, o al massimo di storie queer al maschile (venute alla ribalta soprattutto dopo il successo di Chiamami col tuo nome di André Aciman nel 2007). Se uscissero nuovi casi letterari con nuovi modelli di personaggi maschili, dato che la letteratura si pone in relazione con la società che la produce e poi la legge, potremmo assistere ad un cambio di paradigma. Ad oggi invece la letteratura “al maschile” è prevalentemente fatta di manuali di auto-aiuto per essere “più maschi”. E questa cosa è molto triste.“Brutale. Oltraggioso. Sadico. Distopico. Quando parliamo dell'assalto totale dei talebani ai diritti delle donne in Afghanistan, iniziamo a esaurire gli aggettivi“. È l’incipit dell’articolo di Andrew Stroehlein su ValigiaBlu dedicato alle donne in Afghanistan. Da leggere.
Accompagnate all'altare dal padre e “consegnate” al marito: questa tradizione (a bene vedere più che altro hollywoodiana) è veramente necessaria? Se lo chiede la Chiesa Luterana Svedese, indecisa tra simbolismo patriarcale e inclusività familiare.
“Io sono il ministro, io sono un uomo, io rappresento l’istituzione e in futuro nessuno crederà a tutto quello che tu dirai”. A partire dalla frase “da manuale” di Gennaro Sangiuliano,
riflette sulla credibilità femminile da Monica Lewinsky a Maria Rosaria Boccia.Hai mai sentito parlare di Omegaverse? Si tratta di un filone di (fan) fiction spesso frequentato da utenti queer che ipotizza un mondo di maschi Alpha e Omega… ma non nel senso che siamo abituati a pensare. Francesca Guidi su Nerdcore ci guida in questo mondo fantastico, che prevede anche la MPreg (leggi l’articolo per sapere di cosa si tratta).
MowMag intervista Giulia Siviero su “femminismo social”, ginecologi anti abortisti e governo Meloni.
Mattia Madonia su The Vision riflette sul privilegio maschile (e di articoli così ne vedo proprio pochi in giro, te lo dico).
Queer di Luca Guadagnino è il film di Venezia che sto aspettando di più, specie dopo aver letto Gabriele Niola su Wired e Mattia Carzaniga su Rolling Stone.
Cosa diavolo è questo woke, alla fine? Lo spiega benissimo Vera Gheno nel più recente episodio del suo (fondamentale) podcast Amare Parole che ti metto qui tutto intero!
L’ultimo numero di Maschi del Futuro di
prende spunto dal triste caso di cronaca di Paderno Dugnano per riflettere sulla narrazione che spesso facciamo di un omicida (in questo caso un adolescente maschio) per cui “non c’erano segnali” che facessero presagire il fatto. Sta qui sotto, direi che puoi iscriverti al volo.La sex/ed che vorrei
Riprendiamo il discorso dove lo avevamo interrotto a luglio, focalizzandoci su un tema che è la “bestia nera” di molti adulti alle prese con gli adolescenti: la gestione delle relazioni attraverso i device elettronici.
Ep. 8 - Le relazioni digitali
Ormai è una decina d’anni che lo sappiamo: qualunque adolescente che si rispetti vive buona parte della sua vita relazionale on line, con lo smartphone, il PC o una console di gaming. Ho buone ragioni di pensare che le cose non cambieranno, perciò è necessario che ci fermiamo un attimo ad esplorare il mondo delle relazioni digitali.
Poniamo il caso che tu sia nato nei primi anni 2010: fai parte della prima generazione nata interamente nel XXI secolo, la Gen-Alpha. La Gen-Z, quella di prima, è stata quella dei “nativi digitali”, ma tu ormai sei un cittadino digitale di seconda generazione. Si fa un gran parlare della generazione Alpha come quella di chi è cresciuto “con gli schermi davanti al ciuccio”. E in effetti pare che oggi se a 11 anni non hai uno smartphone sei uno sfigato, e se a 13 non hai un account su qualche social sei decisamente fuori dal mondo. Le cose si evolvono molto velocemente, i Boomer non capiscono, i Gen-X e i Millennial sì (perché abbiamo iniziato a praticare la nostra vita digitale in giovane età, o comunque prima dei 35 anni) ma comunque in molti casi arrancano, e voi (pre)adolescenti vi avviate verso il vostro futuro di pixel considerandolo normale - banale, persino - come tutte le cose che esistono da prima che nasceste.
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Ma avere a disposizione una serie di strumenti, esserci “nati dentro”, saperli usare tecnicamente, non garantisce che si sappia veramente usarli in modo sensato, efficace ed etico, soprattutto nel campo delle relazioni interpersonali. Al di là del problema di una generalizzata “dipendenza digitale” che è ormai trasversale a tutte le generazioni, il punto è proprio che è sempre più comune affidarsi ad app di instant messaging o ai feed dei social media per avviare e mantenere molte relazioni sociali. Magari non per forza o non del tutto quelle più significative, ma di sicuro una “fetta” significativa di relazioni.
Abbiamo parlato spesso di “segnali”, di linguaggio del corpo. A ben vedere, è proprio quello che manca in una relazione digitale. La comunicazione interpersonale è fatta soprattutto di vicinanza fisica, di comunicazione non verbale, tutti aspetti pressoché impossibili da gestire via smartphone. Sì, d’accordo, ci sono gli emoji, ma è una forma di comunicazione che - per quanto possa essere molto creativa - è una fonte inesauribile di ambiguità.
È per questo che le “amicizie” nate o gestite attraverso i social sono spesso fonte di delusione, frustrazione, scazzi e fraintendimenti. Perché non sempre è possibile chiarirsi parlando faccia a faccia. Per non parlare del fatto che i contatti sui social non sono propriamente “amici” (nonostante l’interfaccia di utilizzo spesso tenda a definirli tali), sono anime affini solo in apparenza - o meglio, in potenza. Soprattutto, non puoi automaticamente considerare una persona che ti ha messo un like su Instagram un potenziale partner. Le cose non funzionano proprio così.
Quello che serve è andare un po’ più a fondo nello scoprire gli effetti positivi e negativi della comunicazione digitale tenendo sempre presente che il male non sta mai nello strumento, ma in chi lo usa con cattive intenzioni. Sia che usiamo app di instant messaging come Messenger, WhatsApp o Telegram per comunicare uno a uno o in gruppi, sia che usiamo social media come TikTok, Instagram o YouTube, abbiamo sempre un problema di base. Il problema è quello della privacy: la nostra, in prima battuta, e a seguire anche quella degli altri. Il doxxing, ossia la diffusione indesiderata on line di informazioni personali magari anche “sensibili” (dal tuo indirizzo di casa al numero di telefono a foto che possono indicare chiaramente i posti che frequenti, per dire) avviene quasi sempre a causa della leggerezza con la quale si usano questi strumenti.
Far entrare nella cerchia delle tue relazioni digitali qualcuno che hai appena conosciuto non ti garantisce che questa persona sia sensibile quanto te al tema della privacy. Non ti garantisce, per esempio, che nonostante tu abbia mandato un messaggio diretto (e privato) questa persona non lo ripubblichi in modalità accessibile a tutti, in un gruppo o direttamente su un profilo social aperto. O magari hai condiviso qualcosa su un social con determinati settaggi di privacy (solo un gruppo di persone può vederlo, un altro gruppo no) e questo contenuto viene screenshottato e mostrato a persone che non avrebbero dovuto vederlo. È un comportamento da infami, chiariamolo subito. Ma non è così infrequente, ed è uno dei motivi principali per cui le relazioni digitali possono naufragare malamente.
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Ci sono molti modi in cui le persone si comportano in modo criminale online: sono comportamenti digitali che spesso vengono adottati con leggerezza ma è fondamentale capire che molti di questi comportamenti, come le violazioni della privacy o il cyberbullismo, sono perseguibili penalmente a partire dai 14 anni.
Il primo comandamento delle relazioni digitali è quello di non accettare “caramelle dagli sconosciuti”. Tuttə ce lo sentiamo dire da quando iniziamo a camminare e a interagire con estranei potenzialmente minacciosi: la cosa è ancora più vera e importante on line. A qualunque persona di qualunque genere o orientamento sessuale possono far piacere le attenzioni di un ammiratore on line, che ti mette i like su Instagram, ti commenta le storie e ha magari un nickname misterioso. Ma non è sempre detto che questa persona sia quello che appare. Il problema dei profili fake è più diffuso di quanto non si pensi e se a volte può essere uno scherzo di cattivo gusto, in alcuni casi la pratica del catfishing (crearsi un profilo falso o “alternativo” per ingannare, trollare o peggio ancora ricattare i propri contatti) scivola direttamente nel reato penale.
Abbiamo già accennato agli screenshot, la “foto dello schermo” che si può fare su PC e su smartphone. Una pratica che ha un senso quando si vuole ricordare una schermata che si è vista durante una navigazione on line, ma che rivela un’accezione profondamente negativa quando lo screenshot riguarda conversazioni su WhatsApp, mail, messaggi privati, foto o storie magari postate incautamente su un social che si vorrebbero poi eliminare. Purtroppo dietro la “protezione” di uno schermo digitale, molte persone riescono a dare il peggio di sé e lo screenshot diventa un'arma di ricatto o umiliazione pubblica.
Prendiamo il caso del sexting, una pratica che è estremamente diffusa anche tra giovanissimi. La parola inglese, abbastanza esplicita, unisce “sex” e “texting”, cioè messaggiare contenuti espliciti a carattere sessuale. Se sei in una relazione, nulla ti vieta di scambiarti messaggi con il tuo partner ad alto tasso di erotismo o perché no di inviare e ricevere foto di nudo. Lo facciamo un po’ tutti, a volte: è uno degli elementi che possono aggiungere pepe alle relazioni contemporanee.
Se però non sei sicuro di come si potrebbe comportare il tuo partner, perché magari state insieme da poco o perché semplicemente è una persona non così attenta alla riservatezza, il sexting può facilmente diventare DNCII (Diffusione Non Consensuale di Immagini Intime), un reato bello e buono. C’è gente che per casi di DNCII si è suicidata, o comunque ha avuto la vita rovinata. C’è da dire che le vittime di DNCII nella maggior parte dei casi sono femmine, le cui foto intime, nel contesto di un comportamento che più volte abbiamo definito “da branco” vengono esibite come trofei di conquista dal gruppo di maschi che le vedono come oggetti da collezionare. In ogni caso non è escluso che la DNCII venga attuata anche ai danni di un maschio, se questo non è visto come parte del branco di cui sopra.
La DCNII può anche essere “creata ad arte”: nell’era delle fake news e dell’intelligenza artificiale è semplicissimo prendere un filmato pornografico e aggiungere il viso di una persona di propria conoscenza creando un cosiddetto deepfake. Non è reale, ma fa male come se lo fosse, e può essere lo spunto per una vera e propria sextortion, un ricatto su base sessuale che prevede di farti pagare per tenere segreti filmati o immagini (vere o false che siano) di situazioni che non vorresti mai rendere pubbliche.
Il sexting, ad ogni modo, è una pratica comune e accettabile tra due persone che hanno una relazione. In nessun caso però è accettabile mandare un dick pic (una foto del cazzo, letteralmente) a una persona che non conosci, con l’intento di approcciarla o di attirare la sua attenzione per ottenere un appuntamento o avviare una relazione più o meno seria. Una cosa del genere è a tutti gli effetti una molestia sessuale, allo stesso modo che allungare le mani, apostrofare una persona per strada con allusioni sessuali o sfruttare una relativa / momentanea posizione di potere per costringere un’altra persona a fare sesso con te.
Poi, va da sé, voi adolescenti avete tutto il tempo del mondo per fare un sacco di cose on line, messaggiare, giocare, guardare video e fare sciocchezze di cui potreste pentirvi - hanno anche coniato il termine vamping, per indicare la brutta abitudine di passare la notte svegli on line come i vampiri e trasformarsi poi in zombie di giorno. In tutto questo tempo dedicato alle relazioni digitali non ci sono solo aspetti realmente pericolosi come quelli visti finora, ma anche, più semplicemente, degli atti di maleducazione digitale che seppure non perseguibili penalmente possono risultare veramente odiosi.
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Due pratiche su cui vorrei soffermarmi sono il ghosting e l’orbiting, purtroppo messe in atto moltissimo anche da adolescenti maschi (ma lo ribadisco, non è che noi adulti siamo immuni da questi comportamenti). Il ghosting (letteralmente “fare il fantasma”) è quando improvvisamente non si risponde più ai messaggi dell’altra persona, lo si blocca sui social, lo si toglie dagli “amici” e si fanno perdere le proprie tracce digitali. Si tratta di un modo terribile di chiudere una relazione, sottraendosi al confronto e alle spiegazioni. Inutile dire che è una roba che manda ai matti la persona vittima del ghosting, e che per quanto uno cerchi di passare oltre, la fine di una relazione segnata dalla messa in atto di questa pratica brucia molto più di quanto non faccia il lasciarsi di persona.
Chi fa ghosting è un vigliacco nella migliore delle ipotesi, uno stronzo nella peggiore (quella in cui si fa ghosting col preciso intento di ferire l’altra persona). Detto ciò, può anche essere una cosa sana, dopo che c’è stato un confronto di persona e c’è stata una corretta esposizione delle motivazioni per troncare una relazione, sparire dalla vita dell’altra persona. Non sempre si può rimanere amici, e se la rottura è stata pesante, o non consensuale da entrambe le parti, è sempre meglio non farsi più sentire o vedere. Altrimenti si può incorrere in un’altra forma di maleducazione digitale che può sfiorare la persecuzione, l’orbiting.
Si dice orbiting (“restare nell’orbita”) quando una delle due persone in una relazione finita (in genere quella dei due che ha lasciato l’altra) continua, in modo più o meno ossessivo, a mettere like o commentare i profili social dell’ex o a mandare messaggi privati ambigui in un gioco di tira e molla che ha il solo scopo di “non farsi dimenticare” ma che in realtà è equiparabile a un vero e proprio cyberstalking. Chiudere una relazione - un po’ come avviarla - è una delle cose più difficili del mondo, ma va fatto con cura e senza ricorrere a trucchi meschini e possibilmente senza l’ausilio di strumenti digitali.
Fin qui ci siamo concentrati su questioni digitali nelle relazioni di coppia. Ma l’attenzione alle relazioni digitali va tenuta alta anche nel contesto delle relazioni di amicizia o nelle dinamiche di gruppo. È proprio in questo ambito che si sviluppano le varie forme di cyberbullismo - una piaga sociale che colpisce prevalentemente il giovane maschio non conforme al modello dominante.
Il cyberbullismo è la pratica di attuare delle vessazioni o delle azioni offensive ripetute nel tempo attraverso i mezzi digitali. Qualche esempio? La DNCII di cui abbiamo parlato prima è un atto di cyberbullismo molto grave. Inviare ripetutamente messaggi privati di insulti e minacce è cyberbullismo. Creare e diffondere un meme con una foto di un compagno scrivendoci sopra frasi offensive è cyberbullismo. Tra l’altro, nel mondo digitale è sufficiente che l’azione del bullo venga compiuta anche soltanto una volta: se la bravata diventa virale, ecco che un’infinità di persone possono testimoniare e prendere parte al cyberbullismo anche non volendolo (ricevendo per esempio sui propri device una foto rubata). Rispetto al bullo tradizionale, diciamo, il cyberbullo ha dalla sua la sensazione di poter avere un “pubblico” molto più ampio - e di conseguenza la vittima può avere ancora di più la sensazione di non avere scampo, che tutti gli occhi le siano puntati addosso.
Se ritieni di essere vittima di questo tipo di comportamenti parlane subito con un genitore, con un insegnante, con qualsiasi persona adulta di cui ti fidi. Si tratta di situazioni delicate che vanno risolte il più presto possibile e con competenza, perché possono degenerare. So bene che a volte gli adulti non credono al bullismo (cyber o meno) o lo derubricano a “ragazzata”. Se ti capita che non ti credano, rivolgiti ad un’altra persona: quello è semplicemente un adulto che ha dimenticato com’è essere adolescenti.
[continua…]
Cosa mi gira in testa?
In questi giorni la stanchezza prolungata di un’estate difficile, a sua volta acuita da un rientro col botto (e con la prospettiva di un nuovo ciclo scolastico per la Creatura) mi ha un po’ segato la voglia di impegnarmi in qualcosa di troppo complesso. Sto cercando comfort nella lettura di Breakfast at Tiffany’s, la novella di Truman Capote nell’edizione Little Clothbound Classics di Penguin (una roba da feticisti del libro). Per chi ha visto solo il film, il libro è molto diverso e ha una scrittura asciutta e sincopata: tratteggia in modo più incisivo il personaggio di Holly che tutti associamo all’interpretazione (un po’ edulcorata) di Audrey Hepburn.
Le paturnie di Holly Golightly - © Paramount Pictures
L’album del momento, ovviamente, è Romance dei miei amati Fontaines DC: è sicuramente una produzione più “commerciale” (qualunque significato tu voglia dare a questo aggettivo) rispetto alle uscite precedenti, ma è il segno di un’apertura a ibridazioni tra alt-rock, dreampop, e beat di matrice hip-hop che rendono l’album più fruibile e adatto al periodo (mio). Te lo metto qui sotto.
E poi ti voglio proporre due cover semplicemente bellissime. La prima è quella di Smalltown Boy, l’iconico brano synth-pop dei Bronski Beat rifatto da Perfume Genius con l’aiuto dei The Knocks: come riattualizzare nel 2024 un pezzo che comunque non è mai veramente invecchiato.
La seconda è quella di I Would Die 4 U, uno dei pezzi bandiera di Prince, rifatta dalla cantautrice transgender Lauren Auder con Wendy & Lisa (ex Revolution): grazie a una segnalazione del guru
ho scoperto anche questo progetto musicale TRANSA di Red Hot che dovrebbe uscire a novembre con un album tematico che vedrà - tra lə altrə - la presenza di Kara Jackson, Devendra Banhart, Faye Webster, Helado Negro, Kelela, Perfume Genius (ancora lui), André 3000 e… Sade!Su queste note così anni ‘80 eppure così contemporanee, ti saluto e come sempre ti chiedo, se hai apprezzato questo numero di Patrilineare, di condividerlo con amici e parenti soprattutto maschi e di lasciarmi un obolo su Ko-Fi a compensare i turni di notte che faccio per scriverti ogni dieci giorni.
Ovviamente l’offerta è libera, nessun problema anche se mi metti solo un cuoricino. D’altra parte l’obiettivo è diffondere amore. Alla prossima!
Che pezzone, Pietro: esauriente ed esaustivo. Su persone intersex e intersessualiltà ti segnalo due cose bellissime che ho letto, entrambe edite da Settenove:
- la graphic novel "Polly" scritta da Fabrice Melquiot e illustrata da Isabelle Pralong (traduzione di Marta Capesciotti, Sarah Di Nella).
- il saggio "A nudo! Dizionario amorevole della sessualità" di Myriam Daguzan Bernier con le illustrazioni di Cécile Gariépy (traduzione di Valeria Illuminati, Roberta Pederzoli.
Ricchissimo episodio, quante cose interessanti da leggere! Bello che ti sia piaciuto il pezzo sulla Sad Boy Literature di cui avevo parlato su Ojalá :)