Decostruire, smarrirsi, ricostruire: per una emancipazione maschile
Dirsi femminista è un conto, ma spesso vuol dire semplicemente essere un alleato. Come facciamo ad essere "femministi per noi stessi"?
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Quando ero giovane e punkettone ascoltavo molte band (allora) oscure, tipo gli Einstürzende Neubauten.1 In quello che probabilmente è il mio album preferito di questa band berlinese, Zeichnungen des Patienten O.T. del 1983, c’era una frase stampata sul retro della copertina: “Destruction is not negative, you must destroy to build”.
Questa cosa mi è tornata in mente mentre pensavo al concetto di decostruzione. Hai presente? Tutte le volte che si parla di mascolinità, tossica o meno tossica, si tira sempre in ballo la decostruzione. Il maschio “decostruito” è il maschio che riconosce e accoglie le diversità, che comprende l’inganno del patriarcato, che affianca le lotte e le rivendicazioni dei femminismi, che è in contatto con le proprie emozioni, in una parola è il maschio “fuori dallo stereotipo”.
Io mi considero un maschio in decostruzione, tu che mi leggi probabilmente lo sei o ci stai provando, e tutti insieme cerchiamo di fare massa critica per cambiare la società. Però questo fatto della decostruzione, insomma… è un po’ come se fossimo fatti di tanti mattoncini di Lego che vanno sparpagliati (e poi rimontati? Ma come?) oppure - metafora ludica che mi sembra anche più azzeccata - come se fossimo una torre di Jenga2 più o meno perfetta e dovessimo sfilare travette di legno una dopo l’altra facendo attenzione a non crollare. Ma a un certo punto si crolla sempre, garantito.
Insistere sul processo di decostruzione maschile è doveroso: noi siamo in effetti il prodotto di un “montaggio predeterminato” di mattoncini che sono gli stereotipi, le convenzioni sociali, le aspettative sul genere. I femminismi questo lo hanno capito perfettamente da decenni, e hanno applicato questa conoscenza al genere femminile o - nei movimenti queer - agli altri generi. Se anche noi accettiamo l’assunto che il genere sia un costrutto sociale e storico, e non una caratteristica interna e immutabile, dobbiamo poter mettere da parte alcune cose, tenerne altre e in un certo senso “riconfigurarci”. Se il “genere” può cambiare, anche il maschile può cambiare: la difficoltà sta soprattutto nel fatto che noi non siamo abituati a definirci in base al genere, sono tuttə lə altrə che hanno quelle etichette strane, noi no.
La decostruzione è faticosa, e quando ci sembra di essere a buon punto, intorno a noi restano le macerie: cosa dobbiamo farci, con questa torre crollata? Ecco che molti parlano di “crisi del maschio” e di “colpe delle femministe”. Ma certo che c’è una crisi, personale e collettiva, e certo che non è colpa delle femministe, che salvo alcune frange bizzarre non si pongono contro i maschi, ma contro quello che costringe i maschi ad essere in un certo modo.3 Il fatto è che, una volta decostruiti, restiamo in un certo senso smarriti. Non sappiamo dove andare, non abbiamo le istruzioni dell’Ikea per ricostruirci.
Måskölinitåt (elaborazione dell’autore sul template dell’Ikea Meme)
Lo smarrimento è una naturale conseguenza del decentramento che abbiamo messo in atto se veramente eravamo intenzionati ad affrontare il percorso di decostruzione. Decentramento in che senso? Sostanzialmente noi maschi, bianchi etero e cisgender non ci siamo mai considerati “maschi bianchi etero e cisgender”. Per noi queste sono caratteristiche invisibili, innate, in una parola “normali”. La norma invisibile cui rapportare ogni altra soggettività. Decentramento vuol dire fare un passo di lato, osservarsi, riconoscere queste caratteristiche come fonte di privilegio, peraltro. E capire che non siamo la norma invisibile ma possiamo essere una tra le tante soggettività visibili che dialogano tra loro riconoscendosi e possibilmente validandosi.
Ecco quindi che il segreto per ricostruirsi (una pratica su cui si insiste troppo poco, anche nei cosiddetti men’s studies) è il confronto, con altri generi e/o con i nostri co-genere. Perché non è certo sufficiente decostruirsi e dichiararsi femministi. Quello è uno step del percorso maschile che ci porta ad essere dei buoni “alleati”. Ma giustamente, questo non dovrebbe bastarci. Dobbiamo cambiare per noi stessi e non solo per gli altri. Dobbiamo liberarci - o emanciparci, per usare termini cari alla riflessione femminista - dal patriarcato in un senso che sia veramente trasformativo e non solo di facciata. E se la decostruzione è faticosa, la ricostruzione è certamente complicata.
Io non ho ricette, perché sono sullo stesso piano dello smarrimento di molti altri maschi che hanno deciso di mettersi in discussione. Però approfitto dello smarrimento per studiare, e per discutere, conscio del fatto che un cambiamento culturale non si ottiene in poco tempo e che la vera emancipazione arriverà nel momento in cui a nessuno verrà più in mente di chiedermi se sono maschio, femmina o altro, perché sarà un dato irrilevante.
Linkando qua e là
Articoli, post, notizie che mi hanno fatto pensare “aspetta che me lo segno per Patrilineare”…
Tutti neurodiversi con la carta colorata - Photo by Vecstock - Freepik.com
Cominciamo con un report interessante su The Conversation a proposito di quanto il ribaltamento di Roe vs. Wade in USA stia completamente cambiando l’esperienza degli adolescenti americani, tra diritti riproduttivi, salute mentale e desiderio di spostarsi in stati dove l’aborto sia consentito.
E se fossimo tutti neurodiversi? Internazionale traduce un articolo di Grace Wade su New Scientist. Le differenze non sono (solo, sempre) “problemi da risolvere” ma (anche, spesso) aspetti da accogliere.
Abbiamo davvero bisogno di ascoltare le parole di Filippo Turetta (alle quali si è dato ampio spazio su Quarto Grado)? Secondo me, no. Quelle sono cose che interessano gli inquirenti. Massimo Recalcati su Repubblica, però, a partire da quei verbali traccia un quadro interessante del patriarcato morente e del narcisismo tossico.
Il mese del Pride è terminato, ma qui le tematiche LGBTQIA+ persistono tutto l’anno. Ho trovato di particolare interesse questo pezzo del Post sul tema della “visibilità” queer.
Su Not, un viaggio attraverso il progetto Annette’s Erotheque, una sorta di wunderkammer dell’erotismo e del comico (e dell’erotismo comico) negli anni pre-internet che mi ha ricordato moltissimo la mia adolescenza matta.
Una intervista a Vera Gheno sul Corriere del Ticino che mi ha fatto un po’ sorridere (perché pensavo alla potenziale faccia di Vera mentre ne leggeva alcuni passi) ma che tutto sommato è equilibrata, dai.
E dopo la legge sul bullismo? Arriva la certificazione antibullismo rilasciata da organismi accreditati per scuole, centri estivi, oratori, etc. I requisiti per certificarsi sulla carta sembrano validi, vedremo che succederà.
Rompere il silenzio è un gruppo di uomini di varie generazioni che si confrontano per rifiutare il patriarcato a Roma. Qui un’intervista ai partecipanti realizzata da Stefania Catallo.
Un breve insight su disabilità e sessualità a cura di Miriam Caridi, punto di partenza per molte riflessioni da fare.
Ricordi il caso dell’arbitra spagnola insultata sui social dopo essersi ferita in campo? Il Bo Live la prende ad esempio per un pezzo interessante sulla cyberviolenza di genere.
Per chi ancora pensa che “Zerocalcare ha aperto un’osteria”, un focus sulla cosa importante: le persone che ci lavoreranno sono le ospiti di Lucha y Siesta, la casa delle donne romana.
Il fatto dei 20 secondi per fermare la molestia: ne hanno parlato un po’ tutti in questi giorni, questo è il pezzo di
su Fanpage.Su Donna Moderna, Eleonora Lorusso parla di Gender Health Gap: la salute è uno degli indicatori chiave per la parità di genere, e in Italia prevenzione, ricerca e cure sono ancora tarate soprattutto sulla popolazione maschile.
Sabina Pignataro su Vita ha mappato le associazioni LGBTQIA+ italiane distinguendone ruoli e attività.
Tanti femminismi, un solo capitalismo: su Periscopio, Eleonora Graziani riflette sulle molte “etichette” femministe e sul vero nemico del movimento che è ovviamente il capitalismo imperialista globale, espressione dell’ideologia patriarcale.4
A me Challengers è piaciuto “così così”, ma il prossimo film di Guadagnino, “Queer”, tratto dal romanzo di William S. Burroughs, promette molto bene. Il fatto che il regista citi Powell e Pressburger tra le sue fonti di ispirazione mi elettrizza.
Un’indagine di Eumetra per Telefono Donna evidenzia un (poco sorprendente) divario tra giovani maschi e femmine nella percezione di temi relativi a violenza, parità di genere, educazione sessuale e affettiva e quan't’altro.
Salute mentale: su Cosmopolitan una interessante intervista a Sara Beomonte Zobel (referente clinica di UnoBravo) sul minority stress e i suoi effetti.
Tre domande a…
Credo che per moltə lettorə Francesca Fiore non abbia bisogno di grandi presentazioni: è una delle due metà (il “genitore 1”) del progetto @mammadimerda che porta avanti dal 2016 con Sarah Malnerich, tra libri, spettacoli e attivismo per genitori e non. L’ho contattata per parlare di famiglia e femminismo…
Photo © Virginia Bettoja
Partiamo col botto: per superare la società patriarcale, secondo te è troppo utopistico sperare che la famiglia possa diventare un primo nucleo di cambiamento? Oppure la famiglia - come diceva quel famoso libretto di Stampa Alternativa - continua ad essere l'origine di ogni male?
Io ho un po' paura quando si delega alle famiglie, perché per una famiglia come la tua o la mia ci sono almeno dieci famiglie disfunzionali in cui invece il patriarcato è veramente dominante. Quindi, il motivo per cui io insisto sul ruolo fondamentale della scuola, è perché è l'unico organo collettivo che abbiamo di consapevolezza, di elevazione delle persone, dei bambini, dei ragazzi. Perché se aspettiamo che siano le famiglie a fare quel passo ed arrivarci, la vedo molto dura. La consapevolezza non si può determinare, perché come le raggiungi le famiglie? Puoi lavorare su un segmento di società che riesci a raggiungere, quella che è già evoluta su certi temi, agli altri segmenti fuori dalla nostra bellissima bolla, non arrivi. Ci arriva invece la scuola, ci arrivano altre istituzioni. Puoi organizzare una “offerta culturale”, ma ci sono persone che non hanno neanche il tempo di fruirne, perché sono preoccupate di non riuscire ad arrivare a fine mese. Quindi, ecco, sarebbe una bellissima utopia ma io vedo un cambiamento così un po’ troppo lento. Auspicherei invece che le cose evolvessero in modo un po' più rapido.
Michela Murgia ci ha riflettuto molto su come potrebbe evolvere in meglio l'istituzione familiare, con la sua teoria della famiglia queer: tu cosa ne pensi? Da un certo punto di vista potrebbe essere la messa in atto del noto proverbio "per allevare un bambino serve un intero villaggio"...
Il villaggio purtroppo non c'è più. Noi siamo tutti molto soli in questa società e siamo come delle monadi, siamo isolati. Una volta, anche per come era conformata la società, le donne stavano a casa e vivevano nei pressi delle loro sorelle, delle loro madri, delle zie, c'era un po' più il villaggio, nell'accudimento, nella crescita. Adesso non è più così e lo scopri immediatamente e amaramente, perché quando fai un figlio ti senti assolutamente sola. Gli uomini continuano a lavorare come se niente fosse cambiato nella loro vita… certo, le cose stanno lentamente cambiando a livello di consapevolezza, ma a livello di strumenti gli uomini non hanno un congedo di paternità paritario, ad esempio. Quindi tu ti fai questi cinque mesi da sola con un neonato e la prima sensazione che hai è quella di un'estrema solitudine, una fatica tremenda che non viene compresa. Quindi sì, servirebbe un “villaggio”, ma oggi è la società che ti deve dare degli strumenti per ricostruirti un villaggio intorno. I figli non sono solo singole persone, sono anche un patrimonio sociale. E invece adesso c'è una colpevolizzazione atroce da un lato se non li fai, perché siamo un Paese a bassissima natalità, e dall'altra parte anche se li fai, perché hai voluto la bicicletta, adesso pedali. Cosa ti lamenti? Cosa chiedi alla società? Perché ti indigni se non hai l'asilo nido e se ce l’hai costa 600 euro al mese? Non lo sapevi? Hai voluto il figlio? Adesso sono tutti cazzi tuoi. Questa è la narrazione, no? Ed è sbagliatissimo, perché ovviamente le persone che hanno un minimo di consapevolezza, alla fine i figli non li fanno. Oppure magari ne avrebbero voluti avere due o tre, ne fanno uno, vedono come è il giro e non ne fanno altri. Perché farli significa pagare un prezzo individuale troppo alto. Significa rinunciare, per esempio, alla tua carriera, significa svenarsi perché economicamente è un salasso e non c'è nessun tipo di aiuto... Anche i bonus che saltano fuori ogni tanto non sono una soluzione: devi avere la fortuna di fare un figlio nel momento in cui c’è un bonus attivo. Io per esempio ho fatto i figli in un periodo in cui non c'era nessun bonus. Anzi, ti dico di più. La prima comunicazione quando è nata mia figlia è stata quella della Tari: mi è arrivata la Tari, che dava il benvenuto al mondo a mia figlia con la tassa dei rifiuti aumentata di un componente. Ora, io dico, anche simbolicamente, no? Anziché mandarmi un pacco nascita con dei pannolini, non so, con un corso gratuito, mi mandi la Tari…? Complimenti!
La mia prima domanda nasceva anche dal fatto che dal governo invece non abbiamo il minimo accenno a politiche veramente "per la famiglia" (lasciamo perdere poi "per le madri")... Tu che hai portato avanti con Sarah diverse battaglie in merito come la vedi, dobbiamo stare in apnea e resistere ancora a lungo o ci sono alcuni spiragli?
Guarda, i piani su cui lavorare sono due: uno è quello culturale del lavoro sulle persone e sulla loro consapevolezza che può certamente aiutare. Poi c’è il piano collettivo, politico, di richiesta della allocazione di fondi, di servizi che è quello più importante a livello pratico. Adesso ci rendiamo tutti conto che stanno gestendo malissimo il Welfare, che la soluzione non è sicuramente impedire gli aborti ma eventualmente aiutare i genitori, no? E sta anche emergendo un nuovo protagonismo dei padri: i maschi millennial cominciano a voler essere più presenti, si sono resi conto dell'inganno che hanno vissuto finora. Certo, il patriarcato ha convinto gli uomini che fosse molto bello non doversi occupare dei figli e continuare la loro vita come se niente fosse per andare a produrre, a guadagnare denaro: in realtà ora cominciano a rendersi conto che si stanno perdendo una fetta importantissima della loro vita, che la possibilità di avere un figlio non si ripete tante volte nella vita di ciascuno di noi e quindi vogliono essere più presenti. Ecco, questo aiuterà sicuramente a cambiare le cose a livello politico, perché questi uomini prima o poi si incazzeranno e chiederanno per esempio i congedi di paternità equiparati quelli di maternità, e questo a cascata impatterà sulla sull'occupazione femminile, perché a quel punto se avremo i congedi paritari non ci sarà più un deterrente da parte delle aziende nell'assumere una donna... perché anche un uomo si potrebbe assentare per paternità. Insomma, se riuscissimo come società evoluta a combattere le discriminazioni che dipendono da differenze biologiche innegabili, se trovassimo delle soluzioni e delle reti per appianare queste divergenze, allora le cose potrebbero sicuramente evolvere e migliorare per tuttə.
Cosa mi gira in testa?
Al momento in cui scrivo il mio tempo libero è occupato soprattutto dal piccolo di casa, che poi è un grande classico dell’estate: lotta per i compiti delle vacanze, contrattazioni, promesse da mantenere, salti mortali fra almeno due diversi centri estivi per poterlo piazzare mentre noi continuiamo imperterriti a lavorare. Una delle promesse (volentieri mantenuta) era quella di andare a vedere Inside Out 2 il giorno stesso dell’uscita in sala. Non sono un superfan del primo film e nemmeno un grande entusiasta dei sequel: generalmente trovo che aggiungano molto poco. Inside Out 2 mi è sembrato un po’ più divertente dell’originale, per quanto un po’ stiracchiato, ma ha certamente i suoi pregi. Ne parlo meglio qui.
Voglio uno spin-off solo su Nostalgia - © Pixar
L’altra promessa era quella di procurarsi il nuovo oggetto del desiderio: Bugsnax. Io sono stato un gamer per poco tempo e in tempi troppo lontani, ora sono un casual player su piattaforme iOS o Nintendo e a volte, per specifici prodotti indipendenti o per questioni di retrogaming faccio qualche acquisto su Steam. Bugsnax l’ho preso lì: è un gioco indipendente prodotto da Young Horses e incentrato su una storia complessa di investigazione giornalistica e svelamento di misteri ambientato su un’isola piena di “bugsnax” (insetti a forma di snack, come scaraburger, pataragni o formikebab). Se non hai mai sentito parlare del gioco è probabile che tu abbia comunque sentito la canzone omonima del Kero Kero Bonito su Tik Tok o simili, ormai è un meme. Bugsnax tra le altre cose è stato candidato a un GLAAD Award nel 20225 e mi sembra un ottimo titolo da giocare in chiave padre/figlio: c’è la parte di cattura delle (più di 100) creaturine ma c’è anche una trama molto complessa che si sviluppa man mano che si portano avanti le side quest. Ora so come passerò l’estate!6
Anche stavolta ti ringrazio di farmi entrare nella tua casella mail, sia che tu sia arrivatə per caso da poco o che mi segui da molto. Ci stiamo avvicinando velocemente a un anno di Patrilineare e sto facendo alcune riflessioni su come continuare questa esperienza. Appena avrò qualcosa di concreto lo condividerò: nel frattempo chiedo a te di condividere questa newsletter con qualcunə che stimi, specialmente se maschio, etero e cisgender.
Se poi ti piace come sto lavorando in questi mesi, puoi supportarmi su Ko-fi. Anche una piccola donazione per me può fare la differenza, ma tranquillə che anche un cuoricino o un restack fanno il loro sporco lavoro. Alla prossima!
Bella bella bella: la puntata e tutto quello che contiene (compresa la geniale illustrazione Måskölinitåt 😄). La riflessione su decostruzione e alleanza come premessa a una nuova ricostruzione m'è piaciuta molto.
Nell'intervista, Francesca Fiore tocca un punto centrale: è la scuola che può fare da cinghia di trasmissione del cambiamento, è lì che il grosso del lavoro completa o supporta quello delle famiglie.